La politica italiana è ancora concentrata sulla preparazione delle amministrative di autunno. Beniamina del Corriere della Sera, Giorgia Meloni viene intervistata da Paola Di Caro.
«Noi siamo all’opposizione, e avevamo proposto un intergruppo parlamentare. Credo ancora che potrebbe essere utile parlarsi anche da posizioni diverse, perché noi possiamo fare “l’ariete” non avendo il vincolo di fedeltà che lega i partiti di maggioranza. Sul coprifuoco, ricordo, siamo stati noi con il nostro ordine del giorno a consentire il cambiamento». Il partito unico che propone Berlusconi invece? «Ho sempre pensato che le specificità di ogni partito siano la forza del centrodestra. Rappresentiamo più del 50% degli elettori: omologare tutto ci farebbe perdere più di quanto potremmo guadagnare. Io ho vissuto l’esperienza del Pdl: dopo lo slancio iniziale, riuscire a conciliare le diverse identità ha portato a scontri e a mediazioni poco efficaci. Il partito unico ha più rischi che vantaggi». Con Berlusconi ha parlato? «No, non in questi giorni. Conosco la sua idea, è da sempre un grande federatore e lo apprezzo anche per questo. Ma mi sento di consigliare a tutti prudenza in questo dibattito, che agli italiani – alle prese con l’uscita dalla pandemia, la disoccupazione, la povertà, la crisi di molte imprese – può apparire lunare. Come ci organizzeremo non è l’interesse primario degli italiani. Lo è quello che faremo». Più facile dirlo quando si è all’opposizione con il 20%. «Lo sento dire spesso: “Meloni lucra sul suo stare all’opposizione”. Quando decidemmo di restare soli però in tanti prevedevano una nostra sparizione. Ed era davvero un’ipotesi in campo. Ma è stata una scelta per convinzione, non per convenienza. Il che non significa non lavorare per la coalizione. Lo si vede dalle decisioni sulle Amministrative: avremmo potuto chiedere un candidato di partito a Roma, abbiamo scelto insieme un civico che è il migliore su cui si poteva puntare. E sempre nell’unità». Sinceramente: se lo aspettava di arrivare al 20% nei sondaggi? «Forse no, ma ho sempre detto che sarebbe stato più facile passare dal 5% al 15% che dal 3 al 5. Sono 10 anni che esiste FdI, stiamo raccogliendo i frutti di un grande lavoro. Ci sono stati momenti in cui ho pensato: ho fatto la scelta giusta? Lavoravamo, ma i risultati non si vedevano. Poi piano piano siamo cresciuti e gli italiani, che scelgono sempre un voto utile, dalla simpatia sono passati alla decisione: questo partito mi piace, è serio, lo voto. E crescere è diventato più facile».