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mercoledì 9 Ottobre 2024 - 21:14
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IL GIOVANE DIPLOMATICO DELLA FOTO SIMBOLO

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Tre giorni fa la sua foto ha commosso l’Italia. Oggi Giuliano Foschini, inviato a Kabul per Repubblica, intervista il giovane diplomatico, ritratto mentre portava in salvo un bambino afghano.

«Posso accendere una sigaretta?». Tommaso Claudi è il diplomatico più popolare d’Italia in questo momento. Ha un paio di vecchie Nike blu impolverate, una maglietta marroncina, la barba lunga e i capelli spettinati. È molto diverso dalla foto in giacca e cravatta che porta nel badge attaccato al collo. La foto che lo ha reso famoso è però un’altra. Sul muretto mentre tira su dalla fogna di Abby Gate, l’ingresso dell’aeroporto di Kabul, ha fatto il giro del mondo. Perché aveva la forza dell’istante. E perché aveva un fortissimo significato politico: le ambasciate sono vuote, anche quella italiana, e un giovanissimo diplomatico è con le mani nella fogna, a salvare la gente. «Primo: faccio il mio lavoro. E il nostro è un lavoro di gruppo: io sono un semplice funzionario di ambasciata, non un personaggio pubblico. C’è il mio ministero, c’è la Difesa, c’è l’intelligence. Io sono un piccolo ingranaggio del sistema. Non mi aspettavo tutto quel clamore dopo quella fotografia. Il nostro unico lavoro era andare su quel muro per portare assistenza ai cittadini afghani in stato di necessità. Ecco, se devo dire che c’è un significato in quella fotografia, è quello della squadra». Se lo aspettava che sarebbe finita così? «Non spetta a me fare valutazioni politiche. Io sono in Afghanistan dal 2019. Ho scelto di venire qui ed è una scelta che rifarei ogni giorno. Perché oltre al valore professionale è umana: ho avuto la fortuna di conoscere persone straordinarie, di vivere accanto a loro nel compound per due anni». Perché non è andato via? «Perché avrei dovuto? Questo è il mio lavoro. Questo è il mio posto: come ho detto sin dal principio, io resto qui fin quando ce ne sarà bisogno. Ma non di me. Ma del nostro Paese e, per la mia piccola parte, del mio lavoro. Oggi ho passato la mia giornata al gate perché è lì che dovevo essere. Certo, è un problema serio di ordine pubblico. Quelle foto, compresa quella scattata a me, sono drammatiche. Il nostro compito è di fare il possibile per gli afghani. Pensando sempre alla sicurezza del nostro personale». Dicono che sia nata una nuova generazione di diplomatici: lei, Luca Attanasio, il nostro ambasciatore ucciso in Congo. Giovani, impegnati, operativi, con le scarpe da ginnastica sporche come le sue. «Noi siamo diplomatici, non cooperanti. E facciamo il nostro lavoro. Cerchiamo di farlo al nostro meglio. Dopo la pubblicazione della fotografia mi hanno scritto decine di colleghi per esprimermi sostegno. Devo dire che mi ha fatto molto piacere». Ha sempre voluto fare questo mestiere? «No. Mi sono laureato in lingue, con una specializzazione in russo medievale. Pensavo di fare il linguista. Poi ho cambiato: ho fatto un programma di studio congiunto tra l’Italia e la Germania e ho vinto il concorso, alla prima occasione. Prima un lavoro al ministero, ero all’ufficio che si occupa delle scuole italiane nel mondo. E poi ho scelto di venire qui. Ora sono stato assegnato in Arabia Saudita. Non so quando mi sarà chiesto di andare, credo che prima dovremo finire qui il nostro lavoro».

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