Alcuni inviati dei grandi giornali sono potuti arrivare all’aeroporto della capitale dell’Afghanistan. Ecco il reportage di Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera.
«Quando calchi finalmente la pista dell’aeroporto avverti subito la vampata di caldo sotto le suole. L’asfalto è bollente. Nell’area dove parcheggia il c-130 dell’aeronautica militare italiana sono fermi almeno 8 cargo grigi panciuti. Si notano le insegne americane e britanniche. Ai lati del nastro d’asfalto il popolo afghano in fuga attende, muto, paziente. I soldati della coalizione, compresi quelli italiani, fanno lasciare a terra, o parzialmente svuotare, i bagagli più pesanti e voluminosi. Tutta questa gente è stata già più volte controllata e perquisita nelle diverse fasi del suo calvario per arrivare al terminal, in coda per la lotteria tra la vita e la morte. Però non si vuole lasciare nulla al caso. Ogni chilo in più significano passeggeri che dovranno restare a terra. I bambini tengono stretto al petto un animale di pezza, una bambola. Le mamme un attimo sembrano protestare. Ma è solo un accenno, un gesto. Poi lasciano fare. «Questi sono gli ultimi, la nostra missione è agli sgoccioli», dice il tenente colonnello Andrea Brozzetti, che ci viene a prendere sulla pista. «L’importante è partire. Via, andare via al più presto. Non abbiamo più neppure la forza per ribellarci. va bene tutto. Purché si decolli subito. I talebani avanzano, non sappiamo ancora per quanto tempo gli aerei potranno decollare», dice Usma, una ragazza di 19 anni dal sorriso esausto. «Grazie Italia, grazie italiani», ripete. E vale la pena di ascoltarla, mentre qui, con gli otto membri della sua famiglia, sta per essere accompagnata dai soldati italiani verso gli ultimi metri che la separano dal portellone aperto del cargo militare che tra poco partirà per il Kuwait, alla volta infine di Roma. Solo pochi metri, forse una quindicina, ma da oltre una settimana le sembravano impossibili da superare. «Voi non capite, per voi europei è tutto garantito. Lo date per scontato. Ma per me questi 15 metri rappresentano un futuro di libertà e sicurezza. I talebani forse non mi avrebbero uccisa fisicamente. Ma certamente avrebbero assassinato il mio futuro di donna e di essere umano libero. Voglio venire in Italia, dovevo assolutamente farlo per me e per i miei figli», dice tutto d’un fiato. Non dorme da oltre quaranta ore. «Sono stata salvata dai vostri soldati che mi hanno trovata vicina ad un canale. Non ce la facevo più», aggiunge. Lei parla. Ma intanto il nostro telefono continua a squillare. È il passaparola tra gli afghani. Quando sanno che forse c’è qualcuno di conosciuto all’aeroporto, anche solo per sentito dire, che potrebbe aiutarli forse a superare le barriere di accesso, chiamano. Lo fanno con ogni mezzo. Sanno che il cerchio si sta stringendo. Terribilmente. Da martedì mattina i talebani hanno vietato l’accesso all’aeroporto per i civili afghani, anche quelli muniti di garanzie e accrediti dai Paesi della coalizione. Ciò significa che chi è dentro è dentro, e chi è fuori resta fuori. Lo si notava benissimo anche ieri pomeriggio atterrando. La pista è sgombra, nulla a che vedere col caos di una settimana fa. Non ci sono civili che invadono il terminal, o si aggrappano ai carrelli degli aerei in decollo. Oltre ottomila soldati americani hanno messo in sicurezza il perimetro delle piste. Di fronte al terminal i gruppi delle persone in partenza sono ben ordinati, divisi per voli, controllati a vista da guardie armate che soprattutto si preoccupano di aiutare i vecchi e dare bottiglie d’acqua fresca ai bambini. La calca vera, l’inferno, sta fuori dal perimetro, verso la strada che conduce al centro di Kabul. È nelle mani dei miliziani talebani che, ai posti di blocco, non esitano a menare botte con i calci dei fucili e frustare chi si attarda. Kabul è sempre più una città divisa tra la nuova normalità del centro e la precarietà dell’aeroporto. Il passato della coalizione è già un ricordo destinato a svanire. Dopo il 31 agosto sarà tutto diverso. Il futuro sta già nelle mani dei talebani. Ieri abbiamo visitato brevemente la sala comando americana. «Sappiamo che l’Isis è qui fuori. Ci sono informazioni di attentati in preparazione», ribadiscono allarmati dal servizio di intelligence. In questa frenesia delle partenze, tanti sono ben contenti di parlare con i giornalisti. (…) Davanti al padiglione dell’Italian Evacuation Center incontriamo accovacciate alcune giovani donne. Stanno attendendo di essere accolte e esaminate. «Speriamo bene. Veniamo da Bamiyan, siamo professoresse e artiste. I talebani ci avrebbero vietato ogni attività e chiuse in casa», dice una di loro, Omena Rasai, 27 anni. Dentro la zona italiana tre medici militari si stanno dando da fare. Si vedono diversi bambini. «Abbiamo curato molti casi di disidratazione, la gente arriva stanca, disfatta, al lumicino. Sono consumati dal caldo. Una donna ha quasi partorito qui da noi. I bambini soffrono di dissenteria», spiegano. L’atmosfera appare comunque tranquilla, calma, gruppi di famiglie stanno sdraiate su grandi stuoie stese a terra nella penombra. (…) Poco distante, seduta al tavolino di un caffè del terminal, adesso invaso di valigie, stracci e povere cose, siede Qadra, una ragazza venticinquenne originaria del Nord, ma che da cinque anni studia business administration negli Stati Uniti. «Ero in visita alla mia famiglia ma sono rimasta bloccata. Maledetto il momento che ho deciso di fare questo viaggio; ora devo scappare con mille rischi». Ma non ha dubbi: «Devo andare via subito. Questo Paese non ha futuro. Questo è l’esodo della sua gente migliore. Tra noi ci sono medici, ingegneri, avvocati, tecnici, persone che parlano le lingue. Dopo il 31 agosto l’Afghanistan sarà infinitamente più povero, avrà perso le sue menti, le sue energie migliori. Questa fuga epocale di cervelli, il frutto di una generazione vissuta nella libertà, permetterà ai talebani di governare indisturbati. Prevarranno i vecchi pregiudizi. Le donne saranno trattate come subumani da chiudere in casa. Una tragedia terribile», spiega. Mentre parla smanetta messaggi al marito rimasto negli Stati Uniti. Fortunato lui che è in Louisiana a casa. «Non riesco neppure a spiegargli ciò che capita qui», esclama poi scuotendo la testa. Tra poco dovrebbe imbarcarsi, il suo nome è già stato chiamato, non sembra avere rimpianti. Non si guarda indietro. Vuole chiudersi la porta alle spalle».