Impressionante la situazione nel Tigray raccontata a Raffaella Scuderi di Repubblica da due medici italiani di MSF, Medici senza frontiere. Una guerra completamente censurata dal Governo etiope, cui nessun reporter ha accesso.
«L’esercito etiope è entrato nel Tigray distruggendo tutto: infrastrutture, fabbriche e ospedali. Mai nella mia vita ho visto strutture sanitarie e cliniche così distrutte e saccheggiate. I nostri colleghi hanno visto quattro ragazzi uccisi a un check point militare». Marco Sandrone è il coordinatore dei progetti di Medici senza Frontiere ad Axum e Adua, in Etiopia, nel Tigray. Al suo rientro dal Corno d’Africa ci ha raccontato quello che nessuno finora è riuscito a vedere a causa del veto di entrata di Addis Abeba ai giornalisti: lo scenario cupo e tetro della regione etiopica sotto bombardamenti dal 4 novembre, il giorno dell’offensiva di Abiy Ahmed, il premier etiope, premio Nobel della Pace. Più dell’80% delle strutture mediche sono state saccheggiate o parzialmente distrutte. «Ho lavorato per tre mesi ad Axum e Adua, a 6 ore di macchina da Makallé. Sei ore di posti di blocco etiopi, eritrei, tigrini e amarici. L’ospedale di Adua era in uno stato devastante, l’unico della città. Il personale medico non c’era: sfollato, in fuga o non operativo per mancanza di salario». Era tutto da fare. E la popolazione sofferente, in balía di se stessa. «Il nostro obiettivo principale è stato ristabilire un minimo di livello di funzionalità in modo che si potesse accedere alle cure mediche. Abbiamo organizzato l’aspetto logistico: bombole d’ossigeno, cibo per i pazienti, medicine». La maggior parte della popolazione tigrina vive in zone rurali, dove i centri sanitari sono stati rasi al suolo. Strade bombardate, mezzi non funzionanti. «Le ambulanze inservibili – racconta Sandrone -Distrutte o usate come mezzi militari. Abbiamo subito attivato le cliniche mobili. Con un focus sui minori, spesso feriti da granate usate come giocattoli, e sui pazienti psichiatrici». L’operatività di Msf è stata messa a dura prova: ogni 30 chilometri un posto di blocco governativo o eritreo. Hanno trascorso più tempo a negoziare con i militari che a curare pazienti. «Oltre all’aspetto medico abbiamo cercato di ristabilire le esigenze primarie della popolazione, privata dell’energia elettrica e del sistema idrico. Hanno bombardato anche i pozzi. Ci siamo occupati dell’emergenza sfollati: almeno un milione sono scappati in Sudan e centinaia di migliaia si stanno spostando da una zona all’altra della regione in fuga dai bombardamenti. Le scuole sono servite da rifugi: 200 in una stanza. Abbiamo strutturato i servizi di base: bagni, docce cucine, coperte e materassi». I bambini non accompagnati sono la categoria più vulnerabile, non presi ancora in carico dal sistema amministrativo. Il conflitto è lontano dalla fine. Il governo etiope ha preso il controllo della regione e l’élite tigrina, che ha governato per decenni, è diventata guerriglia. Tommaso Santo è il responsabile dell’intervento di emergenza nella regione. È rientrato a maggio: «Immediatamente abbiamo messo mano alle strutture mediche, cercando di fornire medicine e acqua. Non c’è la banca del sangue perché non c’è elettricità per alimentare i frigoriferi negli ospedali per conservare il sangue». Tommaso e Marco parlano di solitudine e abbandono: «L’accesso delle Ong è limitato dai responsabili del conflitto. Una strategia del potere per affamare la popolazione». La preoccupazione più grande, espressa pochi giorni fa dall’Onu, è la carestia. «Il problema c’era già prima. L’Etiopia è vulnerabile al cambio climatico: inondazione, siccità, invasione di locuste. Tutti elementi con un forte impatto sulla salute delle persone. Tra marzo e maggio avrebbero dovuto coltivare i campi. La raccolta era prevista tra agosto e settembre. Tutto a monte». La paura di essere attaccati: «I medici locali hanno paura di lavorare. Abbiamo ricevuto visite di soldati armati con azioni intimidatori e verso lo staff medico e i pazienti. Però siamo riusciti a far rientrare qualche membro dello staff. Ad Axum siamo partiti con 50 letti e ora ce ne sono 180 con 220 pazienti». La guerra in Etiopia si sta svolgendo senza testimoni esterni. Uno scenario drammatico che neanche i social riescono a raccontare. Nessun video virale, nessuna foto simbolo. Addis Abeba ha chiuso le porte al mondo il 4 novembre. Ai giornalisti è stato vietato il visto, e chi è riuscito a entrare, l’inviato del New York Times è stato rispedito a casa. I Medici senza Frontiere sono stati i primi a intervenire. Anche a loro Addis Abeba ha riservato un’accoglienza difficile. Ieri, i corpi privi di vita di tre giovani operatori umanitari di Msf sono stati trovati a qualche chilometro da Adua, a un centinaio di metri dal veicolo su cui viaggiavano: «Li conoscevamo molto bene».