Miguel Gotor su Repubblica prova ad interpretare il segreto dell’Italia vincente ai Giochi olimpici di Tokyo. E lo spiega così: alla base ci sono la famiglia e lo Stato, con i gruppi sportivi dei vari corpi che hanno dato la possibilità agli atleti di esprimersi.
«Le Olimpiadi hanno portato l’Italia sul tetto del mondo: nessuno salta in alto, corre veloce e marcia meglio di noi. Un simile successo è la conferma di un modello sportivo in cui la mano pubblica svolge da sempre un ruolo predominante. Anche in Giappone, infatti, la stragrande maggioranza delle medaglie proviene dai gruppi sportivi della Polizia, della Guardia di finanza, dei Carabinieri e dell’Esercito che hanno arruolato gli atleti quando erano giovani promesse, investendo sul talento di ognuno e mettendo a disposizione strutture e professionalità per i loro allenamenti. In questo modo lo Stato, potendo offrire un posto di lavoro fisso, è riuscito a garantire ai suoi sportivi una sicurezza esistenziale anche dopo la fine dell’attività agonistica che un modello esclusivamente privatistico evidentemente non è in grado di offrire, se non a un manipolo di supercampioni. Tuttavia quest’ esplosione di gloria – l’Italia in queste Olimpiadi ha battuto il record di medaglie conquistate dal 1896 a oggi – deve basarsi anche su altre ragioni che le improvvise e imprevedibili condizioni emergenziali imposte dall’epidemia hanno contribuito a valorizzare. Certo, come ha dichiarato il presidente del Coni Giovanni Malagò queste vittorie sono il simbolo di un Italia multietnica e super integrata, ma è probabile che la formula segreta del record sia scaturita anche dall’incrocio virtuoso tra il consueto modello sportivo di matrice militare e uno privato di tipo famigliare, messo alla prova dal lockdown, con la sua proverbiale arte di arrangiarsi. Ne sono una riprova i filmati dei luoghi e delle modalità di allenamento dei tanti vincitori che hanno consentito di entrare nel backstage di ogni singola impresa, rinviando una sorprendente realtà casareccia, artigianale e fai da te: Marcell Jacobs, l’uomo più veloce del mondo, durante l’epidemia, si è allenato in una pista privata messa a disposizione da un amico della madre che l’ha fatta costruire nel giardino della propria villa e, secondo i suoi compagni di allenamento romani, a occhio e croce tutti atleti amatoriali, ha perfezionato la partenza grazie alla disponibilità di qualcuno di loro che si è seduto sui blocchi per tenerli fermi col proprio peso; l’altro velocista Filippo Tortu ha raccontato di essersi tenuto in forma nel parco vicino casa; il marciatore Massimo Stano ha compiuto vorticosi giri nell’area verde del quartiere di Ostia dove abita suscitando la comprensibile curiosità dei suoi vicini che non sapevano che stesse preparando le Olimpiadi; la ginnasta Vanessa Ferrari ha ripreso a volteggiare nel garage della sua abitazione; il karateka Luigi Busà ha colpito a ripetizione un artigianale “fiammifero”, vale a dire un manico di scopa alla cui estremità era fissato un guantone rosso; la marciatrice Antonella Palmisano ha svolto i quotidiani esercizi nel cortile di casa, stretta tra una macchina parcheggiata e la ringhiera cui attaccare l’elastico per le flessioni e i vicini pensavano che volesse fare l’esibizionista. In alcuni casi sono stati gli stessi padri a diventare gli allenatori dei propri figli all’inseguimento di una gloria a loro sfuggita che li ha spinti a trasformare la trappola della frustrazione in una molla di riscossa tra le generazioni: così Tamberi senior, ex primatista italiano di salto in alto, ha forgiato il Tamberi junior; il karateka Busà ancora si ricorda la volta in cui suo padre Sebastiano, ex campione italiano che lo allenava, gli strinse la mano e gli disse «vuoi diventare il numero uno?», promettendogli un sogno ora divenuto realtà a partire da una cucina di Avola («allora ero un bambino obeso e solo mio padre credeva in me»). Dietro altre storie di vittoria, invece, ci sono padri assenti e madri modello come quelle di Jacobs e Fausto Desalu, che hanno cresciuto da sole e controcorrente i rispettivi figli, insegnando loro il valore del sacrificio e del riscatto che ha trovato nella sfida a correre più veloci di tutti un’irresistibile valvola di sfogo. La possibile origine di questi ori italiani rivela però anche l’altra faccia della medaglia che lascia sorgere una domanda spontanea: se siamo arrivati così in alto proprio grazie a questo modello ibrido e flessibile, in cui la dimensione familiare, con le sue intricate dinamiche psicologiche motivazionali, e quella statale, con le sue rassicurazioni lavorative per il dopo, si sono mescolate tra loro moltiplicando i propri benefici effetti, cosa potrebbe fare l’Italia se fosse in grado di organizzare un sistema sportivo all’altezza di questi incredibili successi individuali? Con maggiori investimenti economici nel settore, con la costruzione di impianti di allenamento più moderni e diffusi sul territorio, con lo sviluppo di una cultura sportiva capillare a partire dalla scuola dell’obbligo? La prossima sfida per il Coni è proprio questa: fare di più e meglio per trasformare il trionfo di Tokyo in un’occasione di crescita sportiva per l’intero sistema Paese».
Anche nello sport c’è la geopolitica. Bello notare che nel medagliere di queste Olimpiadi gli Usa sono rimasti primi nel mondo, battendo la Cina al fotofinish. Flavio Vanetti sul Corriere.
«Quarantotto ore per ribaltare un verdetto. Quando pareva impossibile il sorpasso, gli Usa hanno piazzato il golpe che vale il primato nel medagliere (che, sarà bene ricordare, il Cio non riconosce in nessuna forma): Cina scavalcata per una medaglia d’oro in più, 39 contro 38. L’ex presidente Donald Trump, immaginiamo, sarà contento. Lo sprint vincente è maturato negli ultimi due giorni da leoni degli americani: nove titoli tra il 7 e l’8 agosto, contro il solo della Cina. Le squadre nell’epilogo di Tokyo 2020 hanno dato un contributo fondamentale con quattro primi posti: le atlete Usa hanno trionfato nella pallanuoto, nel volley e nel basket, dove si sono distinti anche gli uomini. Nella pallavolo si celebra la gloria di Karch Kiraly, fuoriclasse da giocatore – a Ravenna se lo ricordano bene – e oggi olimpionico anche come coach. Gli altri ori in extremis sono venuti dalle due staffette 4×400 dell’atletica e da tre imprese al femminile: nel pugilato, nell’omnium del ciclismo e nel golf. Non era scontato che gli yankee reiterassero un primato che resiste da Londra 2012 (a Pechino 2008, invece, la Cina si abbuffò con 50 titoli, 15 in più degli americani). Gli Stati Uniti a un certo punto sono stati a -7 dal colosso asiatico: la svolta l’hanno data proprio la squadra delle pallavoliste e Jennifer Valente nell’omnium. Il titolo in più si accompagna al primato per quantità, 113 podi contro 88: qui non c’è stata storia. L’ultimo oro di Tokyo 2020 l’ha conquistato la Serbia nella pallanuoto maschile (13-10 alla Grecia) mentre il podio minore del medagliere spetta al Giappone (27-14-17) che ha sfruttato il «fattore campo» per precedere la Gran Bretagna (22-21-22). L’Italia della spedizione più prolifica di sempre (40 podi) scivola dall’ottavo al decimo posto anche perché la Francia ha a sua volta avuto un rush finale con gli ori nella pallamano femminile e nel volley maschile. Oltre agli azzurri e ai francesi, 10 titoli li hanno olandesi e tedeschi. Ma rispetto a noi hanno più secondi posti, dunque più qualità. Invece se usassimo il criterio della quantità saremmo settimi davanti a Germania (37), Olanda (36) e Francia (33): nulla ci vieta di contare e non di pesare, posto che lo fanno gli americani e che ordinare per ori è una convenzione non seguita da tutti».