Altra vicenda chiave nella vita parlamentare di ieri è quella che riguarda la missione in Libia. Giuseppe Alberto Falci per il Corriere.
«È pomeriggio quando a Montecitorio si consuma uno scontro tra il Pd e il governo sul ruolo della guardia costiera libica nella missione italiana in corso nel Paese africano. Per diverse ore si registrano ore di tensione, ma alla fine passa la linea del Nazareno: dal prossimo anno la missione in Libia sarà gestita dall’Unione Europea. Oggetto della contesa era un emendamento sulle missioni militari all’estero, esaminato dalle commissioni riunite Difesa ed Esteri della Camera. La prima versione del testo proposto dai deputati Lia Quartapelle ed Enrico Borghi chiedeva all’esecutivo di «verificare la possibilità che dalla prossima programmazione ci siano le condizioni per superare» la cooperazione che c’è tra la Guardia di finanza italiana e la Guardia costiera della Libia e di farla confluire nella missione europea Irini, istituita nel 2020 e guidata dall’Italia. Ma qualcosa non va. La modifica riceve il parere negativo del Governo che chiede correzioni. I dem esplodono: «Questa cosa avrà conseguenze». Inizia il braccio di ferro e poi si riuniscono il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè, Borghi (Pd) e il leghista Roberto Ferrari. Si aggiunge anche Benedetto Della Vedova. Racconta il sottosegretario di Più Europa che ha provato a sciogliere la tensione: «Come governo proponiamo una riformulazione che renda più comprensibile il testo iniziale. Alla prima formulazione il Pd obietta e allora e ne proponiamo un’altra, in cui cambiano le parole ma non la sostanza». Nel frattempo dal Nazareno arrivano messaggi che suonano così: «Ci vuole un impegno preciso e chiaro». Lo scontro si conclude con una mediazione voluta fortemente dall’azzurro Mulè che decide di riformulare il testo: «Il governo si impegna a verificare dalla prossima programmazione le condizioni per il superamento della missione di assistenza alla Guardia costiera libica, trasferendone le funzioni ad altre missioni per consolidare il ruolo dell’Italia in Libia, razionalizzare la struttura di comando e potenziare il ruolo europeo». È la versione che soddisfa il Pd e la nota di commento è chiara: «È un risultato nostro». Rincara Borghi che si mostra più che soddisfatto: «Di fatto con l’impegno del Pd termina la missione e si aprono le strade per un impegno più forte della missione europea Irini a guida italiana per la formazione e l’addestramento delle unità libiche preposte al controllo dei confini marittimi». Sulla questione interviene anche Nicola Fratoianni di Sinistra italiana che è di altro avviso: «I parlamentari dovrebbero avere il coraggio di misurarsi con questa realtà e invece si apprestano a votare il rifinanziamento di una missione che ha solo il compito di nascondere ciò di terribile che avviene a poche miglia dalle nostre coste».
Domenico Quirico su La Stampa scrive dei 20 mila mercenari che tengono in ostaggio la Libia.
«Nella intimità delle cancellerie occidentali suona, per la Libia, la campana a stormo dell’ottimismo: la tregua regge si dice, le milizie sonnecchiano come balene pigre a poche dune l’una dall’altra, le miracolose elezioni, primo assaggio di un avvenire radioso, sono a un passo. Perfino il truce generale di Bengasi, Haftar, con le sue manie annessioniste, sembra sparito. Si impermaliscono gli ottimisti se qualcuno suggerisce prudenza, se disegna un paesaggio formicolante ancora di ombre. Il clou della questione è un numero: che si impiglia negli scenari confortevolissimi, fa raschiare i meccanismi con sinistri scricchiolii. Il numero che non si riesce a far rientrare nei calcoli è ventimila: quanti sono i mercenari che combattono nei due schieramenti della guerra civile, quello di Haftar e quello tripolino, malandata barca nelle mani del discutibile primo ministro Abdelhamid Dabaida. Per leggervi dentro, a quel numero, occorre il mappamondo: russi e ciadiani, siriani e turkmeni, sudanesi. Ben armati, agguerriti, mastini che sanno combattere la guerra con il diavolo in corpo, legati ai loro comandanti più che ai datori di lavoro: come i mercenari di tutti i tempi. La guerra è un bene di consumo, lo puoi comprare sul mercato se sei disposto a pagarne il prezzo. Gli dei e gli spettri di questi combattenti, le solidarietà fraterne e i massacri, l’avidità e le paure, sono invisibili agli estranei, una realtà silenziosa, enigmatica, che fa paura. Sarebbe splendido come ha auspicato, ahimè invano, la signora Najla Mangouch, ministro degli Esteri del governo di Tripoli, che i mercenari di entrambi gli schieramenti se ne andassero, smaterializzandosi dal suolo libico. Peccato che non ci sia nessuno in grado di renderla possibile, questa provvidenziale evaporazione. Certamente non le potenze occidentali che coccolano gli accordi di pace libici ma che non manderanno mai soldati per garantirli. Non lo faranno Russia, Turchia e Emirati che i mercenari hanno arruolato: è grazie a loro che sono riusciti a fissare sul terreno una redditizia situazione di parità, divisa da una sorta di Maginot nel deserto tracciata tra Sirte e Jufra. E con i mercenari combatteranno le nuove battaglie per confermare o ingrandire influenze geopolitiche, e arraffare petrolio, contratti di ricostruzione. Ma sono soprattutto i mercenari a non avere alcuna intenzione di chiudere il profittevole contratto libico: l’alternativa sarebbe tornare in Siria e in Darfur a morire di miseria e di guerra in conflitti molto più poveri e feroci di quello che combattono qui. Un salario mensile di duemila dollari è un tesoro per miliziani rintanati tra le rovine di Iblid dove il cielo diluvia bombe dell’esercito di Bashar Assad. O prelevati nei deserti del Darfur dove le divergenze tribali si regolano, dal 2003 almeno, in una mischia sacrilega. La Libia è ricca, immensamente ricca, e debole. Un affare perfetto per chi sa maneggiare un kalashnikov e un lanciagranate. Se i committenti si faranno avari si possono avviare ricchi traffici privati, controllo di pozzi o oleodotti, migranti, droga. Qui non c’è il contagio di furore omicida delle guerre del fanatismo e delle tribù. Semmai si segue la logica del profitto, dell’investimento redditizio. La privatizzazione della guerra, la globalizzazione della sicurezza? No, meglio rileggere la storia dei mercenari stranieri nell’Italia del trecento-quattrocento: inglesi e francesi rimasti senza lavoro per la fine della guerra dei cent’ anni, disoccupati dei massacri tra borgognoni e armagnacchi. Li assoldarono i ricchi Comuni italiani che farneticavano nei loro egoismi. Un buon affare, pensarono. Non se ne andarono più».