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QUIRINALE, GIOCHI APERTI

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Annalisa Cuzzocrea per Repubblica analizza la convergenza obiettiva fra il guru del Pd Bettini e il segretario della Lega Salvini. Entrambi vorrebbero Draghi al Quirinale a febbraio. Il che vorrebbero dire elezioni anticipate di un anno, ma nella primavera prossima. Ma non è detto che finisca così.

«Ci sono una certezza e uno scenario da evitare, nei ragionamenti di questi giorni sulla corsa al Quirinale. La certezza è che se Mario Draghi non fosse presidente del Consiglio, non ci sarebbe altro nome in campo per la successione di Sergio Mattarella. L’unico freno alla sua ascesa, è che dal giorno dopo l’elezione, la legislatura sarebbe di fatto finita. Non solo Matteo Salvini, che domenica mattina lo prefigurava, ma la maggior parte dei leader politici pensa che mettere insieme una nuova maggioranza e un nuovo governo sarebbe un’operazione proibitiva. Impossibile. Anche fosse solo per varare una nuova legge elettorale di stampo proporzionale. È per questo che essere a capo del governo per Draghi è più un freno che un ponte di lancio. Gli impegni assunti con l’Europa vivono della sua credibilità internazionale. Le imprese riunite a Cernobbio, in sua gelida assenza, non chiedono altro che resti dov’è. C’è un mondo fuori dall’Italia, non solo nel nostro Paese, che crede che i prossimi anni – quelli cruciali per gli investimenti e l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – non possano che avere la sua guida. Soprattutto nel momento in cui nell’Unione europea verrà meno quella di Angela Merkel. E quindi, non è affatto un caso che gli unici ad auspicare la sua salita al Colle prima ancora di sapere cosa ne pensi sono Matteo Salvini – ma la speranza è subordinata al successo delle liste elettorali della Lega alle amministrative – e Goffredo Bettini. Che è, di fatto, il dem più vicino al presidente M5S Giuseppe Conte, con cui si confronta e a cui pare augurare di tornare presto a Palazzo Chigi con l’aiuto del Pd. Per loro Draghi è la risorsa perfetta da mandare al Quirinale, banalmente perché questo significherebbe tornare al voto. Se il leader leghista riuscisse ad avere la meglio alle comunali sulle liste di Giorgia Meloni, potrebbe voler passare all’incasso alle politiche, forte della legge elettorale attuale e del suo patto di ferro con Forza Italia (curato dalle posizioni sempre moderate del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti). Quanto a Bettini, non ha certo il potere di influenza di cui godeva quando a dirigere il Partito democratico era Nicola Zingaretti, ma sa che tra i dem qualcuno potrebbe essere attratto dall’idea di avere nuovi gruppi parlamentari. E soprattutto teme, come molte delle persone attorno a Conte, che il consenso ancora alto dell’ex presidente del Consiglio possa sgonfiarsi e sparire da qui al 2023. Bisogna correre, per farlo serve spostare il re sulla scacchiera. Gli interessi convergenti del leader della Lega e del guru pd di Conte sono quindi quasi scontati. Ci sono però le variabili. E qui veniamo alla catastrofe da evitare. Supposto che dal premier non arrivi nei prossimi mesi un cenno che dica: «Tenetemi fuori», qualche big potrebbe giocare il suo nome senza la certezza che tenga davanti alle mille paure che percorrono il Parlamento. È lo scenario fine del mondo, quello che farebbe saltare in aria il momento di relativa quiete che l’Italia sta vivendo in Europa e sui mercati. È difficile credere ci siano deputati e senatori disposti a bocciare un nome come quello di Draghi nel segreto dell’urna. Ma le ultime elezioni dei presidenti della Repubblica, in cui sono stati impallinati nomi dati per certi fino a cinque minuti prima (quasi superfluo ricordare i 101 contro Romano Prodi) insegnano che nulla è impossibile. Soprattutto se si guarda il mondo dalla prospettiva di un deputato o un senatore senza troppa speranza di rientrare (il taglio dei parlamentari diminuisce di netto le possibilità di tutti i rappresentanti dei partiti, a eccezione di quelli di Fratelli d’Italia che per paradosso sono l’unico gruppo di opposizione e potrebbero essere il più interessato all’elezione di Draghi). Ci sono due numeri da tenere a mente. Il primo è una data, il 15 settembre, quando scatteranno quattro anni, sei mesi e un giorno di legislatura e tutti avranno diritto alla pensione (ormai bassa, ma c’è). Il secondo sono i 180 mila euro circa che ogni parlamentare perderebbe accorciando la legislatura. Basta questo a far capire che chiunque rischierebbe. C’è poi la linea ufficiale del Pd, che non è quella di Bettini. Enrico Letta ha detto chiaramente che sosterrà Draghi a Palazzo Chigi fino al 2023. Il suo vice Peppe Provenzano domenica, alla festa dell’Unità, ha risposto a Bettini spiegando che il governo Draghi «è il nostro governo come lo sono quelli in cui ci sono ministri del Pd, tanto più che sulla pandemia ha dato schiaffi a Salvini. Ma non lo è la sua maggioranza, fuori da ogni formula politica, come ha detto Mattarella». E quindi «i governi che hanno una scadenza non lavorano bene, ma il Pd è dentro con la sua agenda, quella sociale, non ne assume altre». Chi tifa per la stabilità, in Parlamento e fuori, tifa quindi per un bis di Sergio Mattarella, la cui indisponibilità è però reale. Soprattutto perché adeguare il dettame costituzionale a una necessità contingente per la seconda volta non sarebbe per il capo dello Stato accettabile. C’è però chi ci lavora, lasciando intravedere uno spiraglio: «Davanti a un’impasse irrisolvibile – possibilità non remota vista la composizione dei grandi elettori, col centrodestra in vantaggio e Renzi a fare da ago della bilancia – il bis sarebbe forse inevitabile ». A meno che inevitabile non si renda l’ascesa di Draghi, col patto di un nuovo governo fino all’autunno che a oggi appare fantascienza».

Un’immagine non elegantissima, il Quirinale albergo a ore, nell’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto che torna sul tema dell’elezione del Presidente della Repubblica. Travaglio non è sulla stessa linea di Bettini, infatti suggerisce a Conte e ai 5 Stelle un’altra strada.

«Dopo Benigni al Festival di Venezia, anche il cantante Marco Mengoni al Salone del Mobile di Rho-Pero, forse influenzato dal clima di antiquariato e modernariato, ha chiesto a Mattarella di restare ancora un po’. Come nel 2013 con Re Giorgio I e poi II, è partita la rumba delle perorazioni al capo dello Stato perché accetti la rielezione. Non per 7 anni, come prevedrebbe quel testo desueto chiamato Costituzione, ma solo un po’, per tenere in caldo la poltrona a Sua Altezza Reale Mario I, che poi deciderà quando ascendere al Colle dopo avere spicciato le ultime faccende a Palazzo Chigi. Come se il Quirinale fosse un albergo a ore. Immaginate cosa pensano all’estero di un Paese che, su 950 parlamentari, non ne trova uno in grado di fare il presidente della Repubblica, cioè di dire quattro banalità a Capodanno (“vestitevi che fa freddo, mettetevi le galosce “), baciare bambini, tagliare nastri ed estrarre dal cilindro un banchiere o chi per lui nelle crisi più serie. Anzi, uno ce l’avremmo, ma purtroppo fa già il premier e, se trasloca, restiamo senza e non troviamo più nessuno in grado di guidare il governo, pur formato integralmente da Migliori. Questa barzelletta fa ridere in Italia, figuriamoci fuori dalla cinta daziaria. Eppure è il mantra che salmodiano i giornaloni e seguiteranno a biascicarlo fino alla data di scadenza di Mattarella. I Costituenti, che avevano chiara la distinzione fra una Repubblica e una Monarchia (gli italiani avevano appena scelto la prima e salutato la seconda), assegnarono al capo dello Stato un mandato settennale per sganciarlo dalla logica maggioranza-opposizione e affinché l’interessato ne avesse abbastanza. Infatti nessun presidente pensò al bis fino a Napolitano, che ruppe la tradizione. E non, come ci fu raccontato, perché non c’erano alternative, ma proprio perché c’erano: Prodi e Rodotà, che però minacciavano un governo coi vincitori delle elezioni (M5S e Pd), anziché con gli sconfitti. Infatti i padroni del vapore imbalsamarono il loro santo patrono al Colle per propiziare il governo Letta, cioè l’ammucchiata fra Pd e sconfitti(FI e montiani),e tagliar fuori i vincitori. Ora i soliti noti ritentano l’audace colpo per tagliar fuori M5S e Meloni dal prossimo governo con un’ammucchiata ancor più vasta (ora c’è pure la Lega perché i partiti “affidabili” si sono ristretti un altro po’). Se Mattarella e i suoi fan pelosi vogliono provarci, liberissimi. Ma ci risparmino le balle tipo “non ci sono alternative”, “ce lo chiede l’Europa” e “il presidente è costretto al bis”. Le alternative sono almeno 950. In Europa, quando scade un presidente, se ne fa un altro. E nessun presidente può essere costretto al bis: se non vuole, lo dice chiaro e il Parlamento elegge un altro».

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