12.9 C
Napoli
domenica 19 Gennaio 2025 - 18:37
HomeAttualitàSCUOLA, LA PROPOSTA DI REMUZZI

SCUOLA, LA PROPOSTA DI REMUZZI

-

Sull’Avvenire Giorgio Remuzzi, direttore dell’istituto farmacologico Mario Negri, propone di uscire dalle contraddizioni provocate dall’obbligo di quarantena delle intere classi in cui gli studenti siano trovati positivi. Secondo i dati pubblicati su Lancet, solo il 2% dei contatti stretti di uno studente positivo risultano contagiati. La proposta: test salivari su tutti, a casa solo i positivi.

«Convivere, prima che con il virus, con la consapevolezza che in questa fase è impossibile fare previsioni a lungo termine. «Dobbiamo fermarci a 15 giorni, un po’ come i meteorologi, e questo non è necessariamente uno svantaggio» spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri, facendo passare le decine di fascicoli e studi accatastati sulla scrivania. Perché è con le conoscenze che la scienza acquisisce di giorno in giorno sul Covid – e le acquisisce costantemente, magari smontandole e rimontandole – che si fabbricano le decisioni politiche. A cominciare da quelle sulla scuola, «dove Dad e quarantene potrebbero essere superate dai dati». A che dati si riferisce professore? «A quelli pubblicati dalla rivista Lancet settimana scorsa. Due le conclusioni dirompenti dello studio, condotto sui test salivari effettuati ogni giorno in 150 scuole britanniche. Primo: soltanto il 2% dei contatti stretti di uno studente risultato positivo alla variante Delta si contagia. Significa 2 studenti su 100, individuati proprio grazie ai test. Secondo dato: i test salivari sono molto più efficaci di quelli naso- faringei, dal momento che nella saliva la distribuzione del virus è più omogenea. Tanto che alcuni soggetti risultati negativi al tampone nasofaringeo sono poi risultati positivi al salivare». Questo cosa significa? «Che piuttosto che costringere un’intera classe a stare in quarantena, cioè a casa in Dad, nel caso di un contagio si può procedere a test salivari mirati: avranno un costo contenuto, identificano con certezza chi è contagiato e chi no, risparmiano un’interruzione generalizzata delle lezioni. È una decisione che potremmo prendere presto. Come per le quarantene dei vaccinati… Se un vaccinato entra in contatto stretto con un positivo si effettua un test. Se nei giorni successivi il test risulta negativo, la quarantena è inutile». Modificare regole e comportamenti rapidamente, mano a mano che la scienza acquisisce nuove certezze sul virus. È la strada da percorrere? «Esattamente. È la strategia, per altro, che stiamo adottando per la terza dose di vaccino. Al momento non ci sono dati scientifici solidi per deciderne la somministrazione generalizzata. Quello che sta succedendo in Israele, dove si è osservato un aumento dei casi di malattia severa associato al calo degli anticorpi dopo 4 mesi dalla somministrazione di Pfizer, non si è invece verificato negli Stati Uniti. Il motivo è legato al fatto che i criteri con cui si indica la malattia severa in Israele non sono gli stessi adottati dal Center of disease control americano. La verità è che il calo di protezione effettivamente riscontrato per Pfizer dice sì qualcosa degli anticorpi ma non delle cellule della memoria, pronte a fabbricarne di nuovi nel caso di infezione. Senza contare che quello stesso calo non viene riscontrato con AstraZeneca. Sul punto, molto complesso, servono insomma ulteriori studi e approfondimenti. Gli stessi dati, in compenso, ci dicono che nei soggetti più fragili – trapiantati, pazienti che assumono farmaci che inibiscono gli anticorpi e anziani over 80 – la terza dose è necessaria. Ecco allora perché è giusto procedere con le somministrazioni su queste persone per ora, come sta facendo l’Italia. Tra due mesi avremo nuove conoscenze e potrebbe essere che si debba estendere la terza dose a chi ha più di 65 anni. Senza paura di cambiare le regole, e soprattutto senza paura del parapiglia che si scatena tutte le volte che lo facciamo: vanno cambiate in base alle nuove evidenze che via via abbiamo, e vanno cambiate in fretta».

Anche Miguel Gotor su Repubblica traccia un bilancio sui primi dieci giorni di frequenza a scuola e ricorda i problemi.

«A dieci giorni dall’inizio della scuola i primi dati della diffusione dei contagi purtroppo non sono incoraggianti. Circa seicento classi e quindicimila studenti si trovano già in didattica a distanza e l’isolamento domiciliare che si sta sperimentando aula per aula presenta il limite di non essere uguale per tutti perché sono previsti sette giorni per i vaccinati e dieci per i non vaccinati con conseguenti problemi di organizzazione della didattica. Nonostante questi dati preoccupanti bisogna resistere senza farsi scoraggiare perché eravamo preavvisati del fatto che il ritorno a scuola avrebbe rappresentato un test importante, ma complicato, per verificare le nostre capacità di ripartenza in un settore fondamentale come l’istruzione. Ora che, al netto del susseguirsi delle varianti del virus, il cielo si va rischiarando grazie alla diffusione del vaccino e alla funzione persuasiva di “semaforo verde” del Green Pass. Tanto più che proprio il mondo della scuola ha risposto con grande senso di responsabilità alla chiamata per il vaccino e oggi il 93 per cento degli insegnanti, del personale amministrativo e di quello Ata risulta vaccinato. Per l’equilibrio psico-fisico di una generazione di studenti è troppo importante recuperare il valore e la pratica della didattica in presenza, così come è decisiva la sfida di pensare già adesso la scuola dopo l’emergenza. Infatti, sarebbe sbagliato perdere di vista i problemi strutturali che esistevano prima dell’epidemia e che continueranno a esserci anche dopo. Ne segnaliamo tre – quelli secondo noi più urgenti – che le risorse del Recovery Plan possono finalmente consentire di affrontare. Il primo riguarda la definizione di percorsi univoci e stabili per accedere all’insegnamento. Negli ultimi vent’anni per troppe volte si è cambiata strada, prima scegliendo il cammino della formazione professionalizzante, poi quello dei mega-concorsi, rompendo un elementare patto di cittadinanza tra le istituzioni e gli aspiranti insegnanti, costretti a un precariato sempre più difficile da gestire sul piano psicologico e sociale. Ciò consentirebbe di ridurre il numero degli alunni per classe, di aumentare la diffusione delle scuole nei territori e di dare un insegnamento stabile e continuativo agli studenti, tutte esigenze ineludibili per avere un’economia e una cultura della conoscenza di livello europeo. Il secondo concerne l’elevazione dell’obbligo scolastico per rafforzare un’idea di scuola dell’inclusione che possa ritornare a essere un ascensore sociale come richiesto dall’articolo 3 della Costituzione. Si tratta di una prova cruciale per sciogliere i nodi della povertà educativa e quelli dei neet, ossia dei giovani che non studiano, non lavorano e neppure lo cercano e vivono in uno stato depressivo più o meno mascherato: in Italia sono il 23 per cento a fronte di una media europea di dieci punti inferiore. Il terzo attiene alle risorse e alla loro adeguata gestione. Sarebbe utile individuare delle aree di “istruzione prioritaria”, equamente distribuite sull’intero territorio nazionale, per intervenire con investimenti speciali sul personale docente, sulla riduzione del numero degli studenti per classe e sulle politiche in favore degli alunni con disabilità. La faglia del disagio, infatti, non è più quella Nord/Sud, ma esistono tanti centri e periferie che convivono nella stessa città, persino con uno slittamento da quartiere a quartiere. Così anche bisogna finanziare progetti di manutenzione e di ammodernamento delle scuole già esistenti, riqualificandole sul piano della sicurezza e del risparmio energetico, ma anche degli spazi annessi agli edifici scolastici come palestre, mense, biblioteche, architettonicamente accessibili e sostenibili. Un intervento che avrebbe effetti benefici anche sul tessuto economico di prossimità, chiamando al lavoro imprese edili, idraulici, elettricisti e piccoli artigiani di migliaia di Comuni italiani. Insomma, affinché la scuola possa svolgere sino in fondo quella funzione di “potente antivirus” ricordata di recente dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella bisogna adottare un modello di intervento a due velocità: la prima per fare fronte di volta in volta alle emergenze derivanti dalla necessità di convivere con il virus, la seconda per prendere di petto i problemi basilari della scuola. Questa è l’unica strada che può permettere di trasformare una simile tragedia in un’opportunità di crescita in un ambito decisivo come quello dell’istruzione non per pensare al domani – come spesso si dice – ma, da subito, al tormentato mondo di oggi».

Articoli correlati

- Advertisment -