È stata approvata dalla Camera, nei tempo voluti dal Governo, la riforma della giustizia penale, così com’era stata proposta dalla ministra Cartabia. A settembre sarà esaminata dal Senato. La cronaca di Virginia Piccolillo per il Corriere.
«Ora sulla riforma Cartabia cala il sipario del primo atto. Si rialzerà a fine estate, quando il Senato comincerà ad esaminare per l’ok definitivo quel testo. Ma l’amarezza di quel «rospo» ingoiato, ha segnato i Cinque Stelle. Anche ieri hanno subito il fuoco incrociato degli sfottò di Forza Italia (e non solo) per «il colpo di spugna sulla legge del “fine processo mai”», e dell’accusa degli ex compagni di Movimento, ora in Alternativa C’è, di aver sottoscritto una riforma «pericolosa per i processi» e abiurato ai propri valori. Ha provato a indorare la pillola l’ex Guardasigilli Bonafede. Abito lucido, meno capelli e meno supporter dei giorni dello Spazzacorrotti, si è rivolto all’Aula e «a tutta la comunità M5S». Per dire: «La realtà è che oggi si vota la riforma Bonafede emendata dal governo Draghi. C’è lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado». E per rivendicare che di fronte all’improcedibilità senza proroghe prevista dalla prima bozza del governo, «abbiamo alzato le barricate. Siamo stati gli unici? Orgogliosamente sì. È nel nostro Dna essere in trincea per i valori della giustizia». Parole che hanno un po’ rinfrancato i Cinque Stelle al termine di una seduta amara. Accesa in mattinata dall’ordine del giorno di Rossella Muroni (Gruppo misto) che chiedeva di concedere proroghe ai processi per reati ambientali prima della «tagliola» dell’improcedibilità, come per quelli per mafia, violenza sessuale e traffico di droga. Riformulato dal governo, il gruppo Cinque Stelle ha annunciato il voto a favore, condiviso da esponenti dem. Alla fine è stato respinto. Ma per un soffio: 186 no e 181 sì. Ma a far esplodere lo scontro in Aula è stata FdI, con un odg a favore della responsabilità diretta dei magistrati. FI, Lega e Coraggio Italia hanno annunciato l’astensione e Iv il voto libero, perché tema di referendum che loro sostengono. Immediato il richiamo alla «lealtà» della capogruppo dem Debora Serracchiani e di Federico Fornaro (Leu), diretto alla maggioranza. E la replica del renziano Roberto Giachetti: «Non ho visto lealtà quando in commissione con il M5S avete mandato sotto il governo o quando dal suo partito, Fornaro, è stato insultato Draghi». Fornaro è scattato verso i banchi di Iv. Subito richiamato da Fico. Ma l’ultima stoccata FdI l’ha diretta al M5S. Chiamandoli al voto su un odg in difesa dell’ergastolo ostativo (lo stop ai benefici carcerari per mafiosi che non collaborano). «Hanno risposto che non è la sede – ha rimarcato Giorgia Meloni in un post -, ma combattere la mafia è un dovere che va compiuto in qualsiasi luogo». Da Andrea Delmastro la chiosa: «Da onestà a omertà».
Giuliano Ferrara sul Foglio “festeggia”, con un certo distacco, la riforma della giustizia e sottolinea come l’interventismo pubblico dei giudici sia un’anaomalia.
«Sarebbe la scoperta dell’acqua calda. Pare che adesso si siano decisi, ma lo scetticismo è di rigore, a togliere ai magistrati ciarlieri il diritto di parola, insomma a imporre loro il dovere di riserbo della funzione per via disciplinare. Non ci credo, ma mi adeguo. Esulto, anzi. Il primo magistrato della Repubblica è il suo presidente, che guida i togati, è capo delle Forze armate, sceglie un terzo della Suprema corte, scioglie le Camere, indica il presidente del Consiglio dei ministri eccetera. Infatti è eletto dal Parlamento per delega politica dei cittadini, e in quanto primo magistrato è il custode della Costituzione. Se al Capo dello Stato, con quei poteri e con quella legittimazione, è riconosciuto un diritto vago e tenue di esternazione, da quasi mezzo secolo siamo assordati dalla chiacchiera togata di chi non ha alcuno di quei poteri, nessuna legittimazione se non quella decisiva di applicare la legge, essere bocca della legge dopo l’as – sunzione nel ruolo in virtù di un concorso pubblico. Oggi il prefatore benevolo ( Nicola Gratteri) di un libello complottista di serie B, uno dei cui autori non è estraneo a bassi pregiudizi antisemiti, mentre l’altro ( un togato) incita le piazze dei No vax, si candida a capeggiare la procura più importante d’italia, Milano, e giudica e manda sugli atti del Parlamento in materia di riforma. Oggi i magistrati fanno tutto a mezzo stampa e tv, tutto quello che riguarda l’uso del loro potere legale: decidono della libertà personale, della vita e della proprietà dei cittadini, con l’accompagnamento verbale delle loro opinioni, e lo fanno in nome del diritto alla libertà d’opi – nione, che in questo caso è potere di schiacciare nella nullità e nell’impotenza il canone dello stato di diritto. Nei libri di Agatha Christie si dice “la parola alla difesa”, perché il mestiere degli avvocati è quello di parlare liberamente a protezione dei diritti, ma nel libro della nostra vita quotidiana il magistrato rovescia i ruoli e parla, parla, parla a ruota libera dei processi di cui è responsabile, delle leggi e della Costituzione, dei fenomeni sociali, dei gruppi politici, parla di sé stesso e dei suoi, attribuisce e disdice accuse di massoneria, si accapiglia a mezzo intervista senza alcuna remora, senza che alcuno ardisca richiamarlo al dovere di riserbo, al lavoro ben fatto di applicazione dei codici decisi da altri. Il magistrato ciarliero, cioè moltissimi tra loro, certo i più in vista, i più ambiziosi, quelli che vogliono a tutti i costi, capricciosamente, essere considerati condottieri e guide della società italiana, si costituisce in partito d’opinione, sorveglia punisce controlla esternando, così come passa informazioni al giornale amico, amministra con parsimonia o con voluttuosa dissipazione le intercettazioni di un’inchiesta, forma correnti e partecipa a un suo gioco elettorale corporativo fatto di conflitti tra libere opinioni di tutti su tutto. Infine fa il salto nella politica, si fa ministro, sindaco, presidente di regione, spende in politica il credito e il discredito guadagnato nelle sue avventure processuali. Se si occupa di corruzione fa cinquina, se di mafia tombola, e il giorno per giorno della politicizzazione urlata della toga è sempre un terno secco, anche quando il fatto non sussisteva o non costituiva reato o il suo indagato e rinviato a giudizio si scopriva, in giudizi lontani nel tempo e ininfluenti da ogni punto di vista, non aver commesso il fatto. Un incubo. Si dice ora che devono stare zitti, devono parlare attraverso gli atti, come fanno i molti che contano meno dei più, che solo il procuratore può ragguagliare l’opinio – ne e altri corpi pubblicamente, si spera a proposito di inchieste giudiziarie rilevanti e solo per questioni di natura procedurale. Insomma devono smetterla di custodire loro la Costituzione, di riscrivere la storia patria a loro piacimento, di pronunciarsi ogni momento in contrasto con i poteri democratici elettivi, devono piantarla di fare strame della legge facendosi protagonisti del discorso pubblico nazionale, facendosi partito dei narcisi e degli affabulatori delle pandette. Si dice che andrà a finire così, con la riforma delle riforme. Si dice».