Quattordici febbraio 2004, San Valentino: nella stanza D5 del residence ‘Le Rose’ di Rimini giace il corpo di Marco Pantani. Aveva compiuto 34 anni da un mese e un giorno. L’uomo dalle gambe d’acciaio ed i polmoni infiniti, lo scalatore capace di vincere nello stesso anno, il 1998, Giro d’Italia e Tour De France, domando l’Alpe d’Huez, il Galibier, il Mortirolo tra due ali di folla adorante, se n’era andato solo, depresso, nell’anonima camera di un altrettanto anonimo albergo. L’autopsia rivelò che la morte risaliva al tardo pomeriggio. A causarla un edema polmonare e cerebrale dovuto a un’overdose di cocaina e psicofarmaci.
Venti anni dopo, i milioni di appassionati che aveva fatto innamorare di sé in tutto il mondo lo ricordano sempre con la bandana legata in fronte, sul volto il ghigno da Pirata, i suoi scatti che bruciavano le energie degli avversari, la maglia Rosa come una bandiera. Solo contro tutti, capace di far battere forte il cuore, di far piangere e gioire insieme. Per questo i suoi tifosi lo hanno amato da vivo e venerato da morto, nonostante le accuse di doping, la cocaina, i dubbi. Nonostante il brutto modo in cui se n’è andato. Carico di disperazione: lui, Pantani, uno dei più grandi ciclisti italiani di sempre.
Dopo la sospensione al Giro d’Italia del 1999 per ematocrito alto era tornato alle gare ottenendo due vittorie di tappa al Tour de France del 2000, contro Lance Armstrong. Poi, però, la convinzione di essere vittima di una macchinazione aveva preso il sopravvento, fino ad allontanarlo dal suo mondo. Così era passato dalla gloria al fango.
Di miti è ricca la storia sportiva, quella del ciclismo in particolare. Pantani è, a pieno titolo, nell’empireo di Coppi e Bartali. L’inizio della sua scalata al cielo dei grandi era stato con la vecchia bici di mamma Tonina. I giovani del Gruppo ciclistico di Cesenatico non avevano mai visto quel ragazzino mingherlino che già alla prima sgambata stacca tutti in salita.
Quando firma il primo contratto da professionista Davide Boifava gli dice: ‘Ricordati che ti ho fatto un bell’accordo’. Lui gli risponde: ‘Guarda che l’affare l’hai fatto tu, perché un giorno vincerò Giro e Tour’. Marco manterrà la parola. L’inizio è difficile, frenato da una lunga serie di infortuni. Nel ’95 lo investe un’auto e addio corsa rosa. Punta tutto sul Tour de France e sull’Alpe d’Huez infila la prima perla della sua leggendaria carriera. Nell’ottobre di quell’anno, dopo essere arrivato terzo al Mondiale, un altro incidente lo costringe a una lunga degenza.
La sfortuna non lo molla e al Giro del ’97 un gatto gli taglia la strada e lo fa cadere, costringendolo ad abbandonare.
Ancora una volta è il Tour il salvagente, con un’altra magnifica vittoria sull’Alpe d’Huez e il podio finale dietro a Ulrich e Virenque. L’anno d’oro è il 1998, quando Pantani entra definitivamente nell’Olimpo dei più grandi, conquistando Giro e Tour, con le memorabili tappe di Montacampione, del Galibier e di Les Deux Alpes. Il 1999, dopo altre grandi imprese in salita (Gran Sasso, Oropa, Pampeago), segna l’inizio del declino: il 5 giugno, dopo la tappa di Campiglio, i controlli fanno emergere un ematocrito oltre i margini di tolleranza. Non è doping ma tanto basta per toglierlo dalla corsa. Marco è stordito, spaventato: “Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, per me sarà molto difficile”.
La depressione ormai accompagna Pantani e quando torna in gara del campione è rimasta l’ombra. Si ritira nel 2003, per curarsi dalla dipendenza da cocaina. Il resto sono cronaca e una data: 14 febbraio 2004. Aveva attaccato Pavel Tonkov, demolito Evgenij Berzin e Laurent Jalabert, distrutto Jan Ullrich, ma non era riuscito a domare i propri fantasmi. Eppure, 20 anni dopo, il ricordo di quell’uomo speciale non è appannato. Il mito lo manterrà per sempre vivo.