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ALTRO ATTACCO USA CON DRONE

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Caos in Afghanistan , gli americani attaccano ancora con i droni per prevenire attacchi kamikaze. La cronaca di Giuliano Foschini su Repubblica.

«Gli aerei americani hanno fretta di andare. Perché il rumore di Kabul non è più soltanto quello della disperazione e della speranza di chi vuole partire. Ma è diventato, oramai, quello delle deflagrazioni e della morte: esplodono le bombe dei terroristi tra la gente, esplodono i missili lanciati degli americani per colpire i kamikaze. Troppo pericolo, come ha ammesso la stessa Casa Bianca, dopo l’ennesimo episodio. Nella notte tra sabato e domenica era arrivata una nuova informazione, precisa, di un ennesimo attacco che Isis K era pronto a fare nella zona dell’aeroporto. E così gli Stati Uniti hanno deciso di intervenire, colpendo con un drone un’automobile a poco meno di due chilometri dall’ingresso dell’aeroporto di Kabul, nel quartiere di Khuwja Bughra. A bordo, secondo quanto hanno raccontato gli uomini del Pentagono, c’erano un gruppo di kamikaze pronti a colpire proprio gli americani che stanno effettuando le ultime operazioni in aeroporto. «L’obiettivo è stato colpito», hanno detto le forze statunitensi. Ma, questo per lo meno denunciano dall’Afghanistan, l’esplosione avrebbe provocato la morte di alcuni civili. C’è chi parla di almeno tre bambini colpiti da un’esplosione laterale. Una possibilità che gli americani non escludono. Un portavoce militare ha spiegato infatti che l’attacco è stato necessario per «autodifesa». Che «sono di fiduciosi di aver centrato con successo l’obiettivo». Che «non ci sono indicazioni» sulla morte di civili. Ma che ci sono state «significative esplosioni secondari» che gli Usa attribuiscono alla «presenza di una notevole quantità di materiale esplosivo all’interno dell’automobile». Sui social sono rimbalzate le immagini di un palazzo colpito, nella zona, all’interno del quale c’erano molti cittadini afgani, tra cui appunto tre bambini. In un primo momento si era parlato di un razzo autonomo, e quindi di due attacchi separati, ma in realtà le operazioni sarebbero collegate. L’attacco americano ha provocato, inevitabilmente, la reazione dei talebani, che già nelle ore precedenti avevano accreditato l’ipotesi che, tra i morti di Abbey Gate, non ci sarebbero soltanto vittime delle esplosioni, ma anche chi è stato sparato dai marines. In ogni caso, i talebani, attraverso uno dei loro portavoce, Bilal Kareemi, hanno ammesso che nell’auto colpita ci fosse almeno un kamikaze, pronto a colpire. Ma hanno sostenuto che i soldati Usa «non avevano alcun diritto di condurre operazioni sul suolo di altri» e che avrebbero quindi dovuto informare i talebani. Che, in questo momento, sono anche in grande difficoltà interna. Dopo aver dovuto far partire da Kabul tra i mille e i duemila uomini per andare a combattere in Panshir (dove i talebani hanno tagliato le reti Internet e di telecomunicazioni ai resistenti e, secondo l’ambasciatore russo, Dmitry Zhirnov, i militanti potrebbero conquistare il territorio, anche con un accordo) hanno qualche difficoltà a Kabul. Non mancano le armi – anche grazie ai saccheggi avvenuti alle basi americane – ma c’è un problema di soldati e soprattutto di organizzazione. Paradossalmente è uno dei momenti nei quali sono più vulnerabili, e di questo i miliziani dell’Isis-K potrebbero approfittare. La paura per queste 48 ore è molta. «Questo è il momento più pericoloso: c’è il rischio di altri attacchi entro il 31 agosto», ha avvertito il segretario di Stato americano Antony Blinken, segnalando come «restano ancora 300 americani» da portare via da Kabul. Chi resta invece sono i turchi. Lasceranno una rappresentanza diplomatica e a loro dovrebbe essere affidato il nuovo scalo civile, in una zona dell’aeroporto oggi inutilizzata».

Sul Messaggero Marco Ventura ipotizza che, di fronte alla minaccia terroristica, Usa e Talebani facciano fronte comune.

«Una corsa contro il tempo, militare e diplomatica, per salvare 100mila afghani e un migliaio di occidentali che rischiano di restare in trappola nell’Emirato islamico dell’Afghanistan governato dai Talebani e che a partire da domani, allo scadere della data-capestro del 31 agosto fissata come ultimo giorno del ponte aereo da Kabul, resteranno nel Paese, senza protezione, sotto il nuovo regime. Con un’aggravante che è un paradosso, ovvero che per salvarli è necessaria la collaborazione di coloro dai quali vogliono essere salvati, i Talebani stessi. Finora la collaborazione c’è stata, se è vero che anche i raid americani sono possibili grazie all’avallo, se non al contributo attivo, degli studenti coranici. È questo lo scenario che non solo gli americani ma i leader europei stanno affrontando. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, dice che le forze Usa sono in grado di «far arrivare all’aeroporto di Kabul i circa 300 americani» che mancano all’appello e «metterli sugli aerei nel tempo che resta». Altri 280 però resteranno o sono ancora indecisi se partire. E saranno un bel rompicapo per la Casa Bianca. E restano 150 britannici più altri 800 afghani che hanno collaborato col Regno Unito. E se i Talebani cercano di convincere il mondo che sono cambiati e garantiranno i diritti delle donne e degli artisti, la brutale esecuzione di un cantante folk (gli stessi Talebani hanno però promesso di punire l’assassino) e la decisione di vietare le classi miste all’Università sono segnali contrastanti. E mentre dall’alto i droni a stelle e strisce fanno saltare potenziali auto-bombe, i Talebani ufficialmente non possono che condannare, ma di fatto collaborano in chiave anti-Isis, e di rimbalzo Washington precisa, in aiuto ai nuovi signori di Kabul, che i raid partono da basi fuori dell’Afghanistan. I marines, sotto gli occhi degli studenti coranici, vanno a recuperare chi è rimasto indietro a Kabul, e si intensificano le iniziative diplomatiche con uno sguardo al dopo. Non solo per salvare chi rischia di essere ucciso, ma per continuare a esercitare un’influenza nell’Asia centrale. Ecco allora che gli Stati Uniti si fanno promotori dell’appello di un centinaio di Paesi ai Talebani perché mantengano la promessa di garantire a chiunque la possibilità di lasciare in sicurezza l’Afghanistan anche oltre domani. «Siamo tutti impegnati si legge nel documento – ad assicurare ai nostri cittadini, nazionali e residenti, impiegati, afghani che hanno lavorato con noi e a quelli in pericolo, di continuare a viaggiare liberamente verso destinazioni estere. Abbiamo ottenuto garanzie dai Talebani che tutti i cittadini stranieri e gli afghani con visti dei nostri Paesi saranno autorizzati a procedere in modo sicuro e ordinato verso i punti di partenza». L’appello, reso pubblico da Sullivan alla Cnn, si conclude con la promessa americana di continuare a rilasciare visti (anche se non ci sarà presenza diplomatica a Kabul ma a Doha, in Qatar) e a muovere «tutte le leve possibili» perché i Talebani facciano quello che hanno promesso. A sostegno degli Stati Uniti, si muovono i leader europei. Boris Johnson fa dipendere il riconoscimento dell’Emirato e lo sblocco dei «miliardi di sterline attualmente congelati, dai fatti e non dalle parole» degli studenti coranici: libero passaggio alla frontiera per chi ha il visto e rispetto dei diritti delle donne. Londra promette di aumentare gli aiuti allo sviluppo fino a quasi 400 milioni di dollari. Il presidente francese Macron, in visita in Iraq e ieri a Mossul, ha annunciato di voler presentare insieme al Regno Unito una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per creare una safe zone, una zona franca a Kabul sotto la protezione delle Nazioni Unite per gli afghani che vogliono partire. La Cina, infine, invita gli Usa a «guidare in modo costruttivo» il nuovo regime. Insomma, a dialogare».

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