I prossimi appuntamenti della politica, dopo il voto, sono la manovra economica di fine d’anno del Governo e il rinnovo del Presidente della Repubblica. L’esito del voto non cambia l’agenda del premier ma c’è l’incognita di Reddito e Quota 100. Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«Come se non si fosse votato. Mario Draghi si sofferma poco, pochissimo sulle comunali. Sa che è il momento dei leader politici, delle loro analisi e delle loro valutazioni. Ed è convinto di poter sfruttare la specificità del suo ruolo – esterno ai partiti – per evitare di mettere bocca direttamente. Dopo il primo turno, temendo contraccolpi, aveva accelerato sull’agenda economica, imponendo la delega fiscale. Replicherà il copione, adesso che i sovranisti sono stati quasi cancellati dalle mappe elettorali di questi ballottaggi. Ci ha lavorato ieri, tutto il giorno, in stretto contatto con il ministro dell’Economia Daniele Franco. E così, oggi riunirà la Cabina di regia e poi il Consiglio dei ministri per approvare il documento programmatico di bilancio e impostare le linee guida della manovra. Venerdì pomeriggio, di rientro dal Consiglio europeo di Bruxelles – o al più tardi lunedì prossimo – dovrebbe arrivare il via libera definitivo al testo. Deve blindarla al più presto per sottrarla allo scontro politico delle prossime settimane. Un passo indietro. Nelle ultime 48 ore l’attenzione del premier si è concentrata attorno alle proteste della galassia anti-vaccini e anti- Green Pass. Forse, è la riflessione, è stata data troppa enfasi a questi eventi, visto che l’ordine pubblico ha tenuto, nonostante i timori della vigilia, e il voto non ha premiato chi ha cavalcato l’onda dei “no pass”. Ma questa è, appunto, battaglia politica, dalla quale il presidente del Consiglio preferisce tenersi fuori. Semmai, continua a mandare segnali nella direzione dell’agenda di governo. E lo stesso deve valere per la legge sulla concorrenza, che sconta un significativo ritardo. Il premier vuole metterle al riparo dalle possibili tensioni della maggioranza. In particolare, dai posizionamenti dei leader sconfitti nelle urne: Lega e Movimento in testa. Sono proprio loro a far temere uno scontro sulla manovra. E, in particolare, sul reddito di cittadinanza e quota 100, terreno ideale per affermare un’identità uscita ammaccata dalle elezioni. Per Draghi, l’azione dell’esecutivo non può essere condizionata dalle elezioni amministrative. Certo, scavando si intuisce che a Palazzo Chigi avrebbero preferito un risultato meno squilibrato. Ma si apprende anche che si temeva uno scenario addirittura peggiore: una disfatta di Salvini accompagnata dalla vittoria di Meloni. Questo sì, sostengono, che avrebbe messo alla prova la tenuta della maggioranza. Non è finita in questo modo. E, forse non a caso, il leghista ha subito ridimensionato l’effetto della grave sconfitta. Se c’è una cosa che il premier non farà, comunque, è intaccare la formula politica che l’ha condotto alla guida del governo. Considera l’unità nazionale uno schema necessario, anzi imprescindibile, almeno fino all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. E questo nonostante il fatto che i sovranisti siano stati duramente sconfitti, mentre i partiti “istituzionali” – quelli che si sono attestati sulla linea del premier, a partire dal Pd, e che adesso gli chiedono di continuare fino al 2023 – risultano premiati dal voto. Per Draghi questo non cambia la necessità di mantenere in maggioranza la Lega. Per almeno due ragioni. La prima è che proprio un sostegno ampio delle forze politiche gli consente di gestire i singoli dossier con flessibilità: una volta concedendo agli uni, una volta dando ragione agli altri. Preservando il suo profilo, evitandogli la condizione di dipendere soltanto da una maggioranza di centrosinistra. Questo si lega al secondo vantaggio di guidare un governo di unità nazionale: la possibilità di giocare una partita per il Colle. La strada non è in discesa, né il premier intende esporsi. Ma è chiaro che difficilmente potrebbe spuntarla, senza il sostegno della destra. Proprio il rebus del Quirinale condiziona inevitabilmente il cammino dei prossimi mesi. A ben guardare, manca pochissimo. Roberto Fico ha già deciso di rispettare alla lettera la tabella di marcia imposta dalla Costituzione. Il 3 gennaio, a un mese esatto dalla scadenza del settennato di Sergio Mattarella, indicherà la data del voto in seduta comune. Due quelle possibili: 14 o 17 gennaio. Significa che già a fine dicembre, archiviata la manovra, l’azione di Draghi sarà congelata in attesa di questo snodo decisivo. Il tempo è poco, il governo adesso deve correre».
Il retroscena di Francesco Verderami sul Corriere è sullo stesso nodo di calendario.
«E meno male che di Quirinale si comincerà a parlare «solo da gennaio», come dice Letta. In realtà, siccome la trattativa per il Colle è parte di un pacchetto che comprende anche la legge elettorale e la data del voto, il segretario del Pd è già impegnato nei contatti con le altre forze politiche. Infatti Calderoli l’ha cercato per conto di Salvini, per verificare la disponibilità a cambiare il Rosatellum con un sistema proporzionale che preveda un premio di maggioranza per la coalizione. Ma nel corso delle conversazione Letta si è concentrato soprattutto sulla modifica dei regolamenti parlamentari, per impedire di qui in avanti le ormai tradizionali transumanze di deputati e senatori. E al termine del colloquio il dirigente leghista ha spiegato a Salvini che «secondo me non se ne farà nulla». Prima delle Amministrative il leader dem aveva dovuto anche respingere le pressioni dei suoi compagni di partito, ai quali aveva chiesto «tempo per pensarci». La netta vittoria di ieri pare l’abbia convinto a non pensarci più. Anche se resta il problema di trovare un’intesa bipartisan su quel «pacchetto» che consegna ai partiti ancora un ruolo, dato che nel governo il ruolo ce l’ha solo il premier. Per quanto, a sentire il renziano Rosato, «se Draghi dovesse formalizzare la sua candidatura al Colle, nessuno avrebbe la forza di opporsi». In tal caso però un pezzo del Pd, da Zingaretti a Bettini, avrebbe in mente una variabile: votare Draghi al Quirinale e spingere per cercare di andare subito dopo alle elezioni, prendendo d’infilata gli avversari. In effetti le urne consegnano un centrodestra privo al momento di guida e di linea politica, logorato da una competizione per la leadership tra Salvini e Meloni, che invece di indicare un vincitore è finita con due sconfitti. Il caos emerge dall’urgenza con la quale ieri la leader di FdI ha chiesto un vertice della coalizione, ammettendo che tra alleati ci sono «posizioni diverse». Ecco perché persino esponenti della segreteria dem accarezzano (e non da oggi) l’idea di approfittarne, sfruttando l’attuale sistema di voto che – secondo i loro calcoli – permetterebbe di conquistare dei collegi al Nord, e grazie ai grillini buona parte di quelli al Sud. Conte sarebbe stuzzicato dalla prospettiva. Tanto che, dinnanzi alle richieste di quanti nel Movimento chiedono il proporzionale, l’ex premier ha fatto il pesce in barile: «Anche a me piacerebbe, ma non vorrei rompere con Letta…». Ieri il segretario del Pd ha formalmente scartato l’ipotesi del voto anticipato, citandola. Un’abile mossa, funzionale intanto a tenere uniti i gruppi parlamentari, dove c’è chi esorcizza l’eventualità delle urne, avvisando che «sarebbe il Papeete di Enrico». Se «Enrico» frena è anche per un altro motivo: vuole provare ad allargare il campo del centrosinistra, strappando agli avversari i centristi tendenza Letta (Gianni) che mostrano insofferenza verso i sovranisti. Immaginare una «coalizione Ursula» insieme a Berlusconi è irrealistico: il Cavaliere si muoverebbe solo per il Colle. Letta (Enrico) potrebbe ugualmente riuscire nell’impresa se, con Draghi al Quirinale, si formasse un nuovo governo senza la Lega. In ogni caso i centristi dell’altra sponda chiedono a garanzia una legge elettorale proporzionale. Come spiega il capogruppo di Coraggio Italia, Marin, «proprio questa legislatura, con i suoi tre diversi governi, dimostra che il maggioritario non porta al bipolarismo». Così si torna al punto di partenza. E se la trattativa sul «pacchetto» non si sblocca, è perché le variabili sono numerose e bisogna fare i conti con i numeri necessari per eleggere il capo dello Stato. I grillini come Buffagni, per esempio, sono consapevoli che sulla partita della legge elettorale e del Colle, il Movimento non solo non è in campo ma neppure in panchina. Sta in tribuna. È vero che Di Maio – come rivela una fonte autorevole del M5S – incontra riservatamente molte personalità: da ultimo anche Cantone, Severino e Veltroni. «Ma noi che siamo il gruppo di maggioranza relativa – ha detto Buffagni a un gruppo di cinquestelle – non possiamo agire di rimessa. Dobbiamo incidere sulla scelta del Quirinale, evitare le elezioni anticipate e puntare sul proporzionale per sfuggire all’abbraccio mortale che ci porterebbe ad essere residuali». E siamo appena ad ottobre…».