Ugo Magri sulla Stampa racconta e analizza l’ultima sortita del Presidente Mattarella. Un discorso importante, direttamente in polemica con l’Europa.
«A cinque mesi dal gong del suo mandato, Sergio Mattarella sfodera una franchezza di giudizio che non si era mai consentito. E da Ventotene, dove 80 anni fa venne concepito il Manifesto di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, espone un’idea di Europa dai contorni netti, quasi spigolosi, sicuramente poco gradita ai cultori delle glorie nazionali. L’idea del presidente è che al passato non si tornerà mai più, l’integrazione europea sarà un processo faticoso ma irreversibile. Chi si illude di riportare indietro le lancette della storia dovrà rassegnarsi, e tanti «gelidi antipatizzanti» specie del Nord si «daranno pace» perché, dopo il Recovery Fund che ha fissato un nuovo standard di solidarietà, ci saranno passi avanti ulteriori, vedremo altre cessioni della vecchia sovranità statuale nei confronti di un sovranismo condiviso, di stampo comunitario. La patria più grande diventerà l’Europa. Il presupposto è che, divisi come siamo oggi, nel mondo contiamo zero. Si è toccato con mano in Afghanistan, con un ritiro mal concordato; l’avevamo visto già in Siria e in tutte le aree dove le super-potenze si sfidano mostrando i muscoli: non c’è Paese Ue, per quanto ambizioso, in grado di competere a quei livelli. Nessuno ha più la stazza sufficiente. Mattarella cita sorridendo un padre dell’Europa, il francese Jean Monnet: le nazioni europee si dividono tra quelle piccole e quelle che ancora non si sono rese conto di essere tali. Ignorando questa cruda verità prenderemo nuovi ceffoni. Subiremo le scelte altrui pagandone un prezzo salato. Bisognerà parlare d’ora in avanti con una voce sola; darsi una politica estera comune nei principali teatri di crisi; all’occorrenza sapersi difendere insieme. Colpisce che un uomo dell’Occidente, un amico dell’America, un atlantista a 24 carati come Mattarella sostenga l’urgenza di sviluppare una capacità difensiva autonoma dallo Zio Sam. Significa che molto sta cambiando negli equilibri della geopolitica; quella sicurezza che ci veniva garantita in passato dagli Stati Uniti dovremo sudarcela e condividerla nel futuro. L’Europa, nell’ottica di Mattarella, è anzitutto una comunità di valori da mettere (con umiltà) al servizio del mondo. Un modello di riferimento sui diritti civili, sulle libertà politiche, sugli standard sociali. Ma anche rispetto al clima dove siamo drammaticamente indietro e la scelta sarà «tra sopravvivere e non sopravvivere affatto». Realismo e speranza si alternano nelle risposte agli studenti (il video è su YouTube). Interpellato sui migranti, il capo dello Stato manifesta tutta l’insoddisfazione per lo «status quo». La politica migratoria dell’Unione non è all’altezza, punta l’indice Mattarella. Anzi, specifica, non è mai esistita laddove, curiosamente, contro il Covid siamo riusciti a fare squadra, là sì che ci sono stati progressi. Sferza le classi dirigenti: «So bene che molti Paesi sono frenati da preoccupazioni elettorali contingenti Ma così si finisce per affidare la gestione del fenomeno migratorio agli scafisti». Una rinuncia, un’abdicazione della politica ai suoi doveri. «Sono sorpreso», incalza Mattarella, «dalla posizione di alcuni movimenti e di alcuni esponenti nei vari Paesi europei, rigorosi nel chiedere il rispetto dei diritti umani nei luoghi più remoti ma distratti», li definisce così, «di fronte alle sofferenze dei migranti. Quelli a parole solidali col popolo afghano, «purché rimangano là e non vengano da noi». A più d’uno, in Europa e in Italia, saranno fischiate le orecchie».
Stefano Montefiori sul Corriere si concentra sull’iniziativa francese.
«Al Consiglio di sicurezza dell’Onu che si riunisce oggi a New York la Francia vuole presentare un progetto di risoluzione per la creazione a Kabul di una «safe zone», una zona sicura che permetterebbe di «continuare le operazioni umanitarie» e proseguire con l’evacuazione di migliaia di afghani a rischio, anche dopo il termine di martedì 31 agosto fissato dai talebani. Il presidente Emmanuel Macron, da venerdì in visita in Iraq, ha anticipato questa iniziativa ieri al Journal du Dimanche, parlando di un progetto comune con il Regno Unito. Londra però non ha diffuso alcuna conferma né commento, e una fonte del governo britannico citata dal Guardian ha semmai definito il piano «prematuro», aggiungendo che «non ci siamo ancora». «È un progetto molto importante», ha detto Macron. «Una risoluzione offrirebbe un quadro delle Nazioni unite per agire nell’urgenza, e soprattutto questo permetterà di porre ciascuno davanti alle sue responsabilità, la comunità internazionale potrà così mantenere una pressione sui talebani». La Francia ha concluso le operazioni di evacuazione venerdì scorso, ed è finora riuscita a fare uscire dall’Afghanistan 2834 persone, 142 francesi, 17 europei e oltre 2600 afghani. «Ma sulle nostre liste abbiamo ancora molte migliaia di afghani che desideriamo proteggere», ha detto Macron, «persone a rischio in ragione del loro impegno, come magistrati, artisti, intellettuali, ma anche molti altri che ci sono stati segnalati». Va poi considerata la situazione di molte donne «che hanno ricevuto un’educazione negli ultimi vent’ anni, in particolare nelle città, e che dobbiamo aiutare nella fuga dalla repressione». Macron la lanciato la sua iniziativa dall’Iraq, dove è arrivato sabato dopo avere co-organizzato con Bagdad un summit sulla sicurezza della regione con la partecipazione di Iran, Turchia, Egitto, Giordania, Arabia Saudita. Ieri si è spostato poi a Erbil, nel Kurdistan iracheno, per ringraziare i peshmerga che hanno combattuto a fianco degli occidentali i miliziani dello Stato islamico. Il presidente francese tiene a un ruolo autonomo nella regione: ha assicurato che «la Francia resterà presente in Iraq, qualsiasi cosa decidano gli Stati Uniti», e di nuovo a proposito dell’Afghanistan ha parlato di contatti con i talebani grazie alla mediazione del Qatar, «che grazie alla buona relazione con i talebani ha la possibilità di organizzare operazioni di ponte aereo o di riapertura di certe linee aeree». Macron immagina «evacuazioni mirate, vedremo se a partire dall’areoporto civile (e non militare, ndr ) di Kabul oppure attraverso i Paesi vicini». Accanto all’iniziativa di Macron, ieri gli Stati Uniti e altri 97 Paesi (tra i quali l’Italia, la Francia e gli altri alleati Nato) hanno diffuso una dichiarazione nella quale registrano le rassicurazioni dei talebani sulla possibilità, per chi è in possesso di visti e documenti di viaggio validi, di lasciare Kabul anche dopo il 31 agosto. Non vengono indicate sanzioni, ma implicitamente al rispetto di questo impegno vengono condizionati eventuali aiuti internazionali. Tra i Paesi firmatari della nota non ci sono né Russia né Cina. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ieri ha parlato al telefono con con il segretario di Stato Usa Antony Blinken, sostenendo che Washington dovrebbe collaborare con la comunità internazionale per fornire aiuti economici e umanitari all’Afghanistan, e «aiutare l’Afghanistan a combattere il terrorismo».
Ieri Romano Prodi aveva anticipato che la posizione della Francia sulla crisi afghana sarebbe stata cruciale, in Europa ma anche nei rapporti con la Gran Bretagna. Anais Ginori per Repubblica.
«Nel farsi carico di una “responsabilità morale” dell’Occidente – così l’ha definita – nei confronti di migliaia di afghani che in vent’ anni di guerra hanno aiutato diplomatici e truppe Nato, Emmanuel Macron lavora insieme al Regno Unito per la creazione di una safe zone a Kabul. La proposta sarà portata oggi al Consiglio di sicurezza dell’Onu con l’obbiettivo di consentire il proseguimento delle operazioni umanitarie sul posto e l’uscita di persone in pericolo dopo la fatidica data del 31 agosto. Cina e Russia potrebbero non opporre il loro veto alla risoluzione a meno di non voler sembrare oggettivamente complici di eventuali eccidi e massacri del nuovo regime. Per il leader francese è un modo di andare a scoprire le carte del nascente governo dei talebani, vedendo subito se accetterà una zona sicura a guida Onu, che tra l’altro permetterebbe di garantire anche l’ingresso di aiuti in un Paese che ne ha un disperato bisogno. Il fatto che Macron abbia già discusso dell’iniziativa con l’emiro del Qatar e che il ministro turco degli Esteri rilasci dichiarazioni favorevoli sull’iniziativa franco-britannica fa intravedere uno spiraglio e conferma che da qualche mese Parigi ha ripreso a dialogare con Ankara. Macron ha giocato di sponda con il premier Boris Johnson, sfruttando i malumori che si respirano a Londra per le ultime scelte dell’alleato americano. La mossa del presidente francese fa intuire una ricucitura post-Brexit sul fronte della Difesa, com’ è logico che avvenga tra le due principali potenze militari europee. Già ai tempi di Donald Trump, Macron non ha mai fatto mistero della sua opposizione al ritiro americano in Afghanistan. E nei drammatici giorni di agosto è stato uno dei leader più decisi nel lanciare un monito all’amministrazione di Washington sulla necessità di protezione per migliaia di afghani a rischio. Non a caso la Francia è uno dei primi Paesi occidentali ad aver cominciato le evacuazioni da Kabul già nel maggio scorso, paventando l’attuale débâcle. Con l’ultimo volo atterrato sabato a Parigi, in totale sono quasi tremila persone portate in salvo. La nuova safe zone per permettere “evacuazioni mirate” dovrebbe organizzarsi fuori dall’aeroporto militare di Kabul, ormai diventato teatro della nuova faida jihadista fra i talebani e l’Isis del Khorasan, in stretto coordinamento con i Paesi vicini e con Doha che potrebbe dare in appoggio i voli di Qatar Airways. Nella crisi afghana Macron coglie l’occasione di ribadire la necessità di un’autonomia strategica europea sul piano militare e strategico. Com’ è già accaduto in passato, le iniziative di Parigi non sempre vengono pienamente condivise con gli altri alleati dell’Ue. Ma le critiche che arrivano dalla Germania sul disordinato ritiro americano e le difficoltà in cui si è trovata la Nato, già definita da Macron in «morte cerebrale», rafforzano la narrazione francese sulla necessità su un risveglio dell’Europa per proteggersi alle frontiere da nuove potenze nemiche. Il leader che a gennaio prenderà la presidenza dell’Ue tenta di incassare qualche risultato nella costruzione di una Difesa europea ma intanto si preoccupa di riaffermare la grandeur francese, in vista delle presidenziali previste ad aprile. Un’eventuale rielezione di Macron dipenderà da temi interni come immigrazione, sicurezza, disoccupazione, più che dalla sua abilità geopolitica. È vero però che nella Quinta Repubblica la statura di un Presidente si misura anche nella capacità di proiettare l’immagine della Francia nel mondo. Dai tempi del generale De Gaulle, che ha fondato l’attuale sistema istituzionale, il protagonismo di Parigi si muove nelle pieghe della relazione atlantica. In queste ore in viaggio in Iraq, dove Parigi si è ritagliata un ruolo terzo da quando nel 2003 rifiutò di partecipare all’intervento Usa, Macron ha ribadito all’attuale governo di Bagdad di voler restare impegnato nella lotta contro l’Isis, nonostante il graduale disimpegno americano, ed è andato a rendere omaggio ai combattenti curdi che accusano Washington di averli abbandonati. La Francia è rimasta scottata dalla scelta di Barack Obama di non voler appoggiare la scelta di intervenire in Siria – allora era presidente il socialista François Hollande – durante i massacri di Bashar Al Assad, lasciando indirettamente nascere il Califfato che ha scelto proprio la Francia come bersaglio di attentati. Alcuni diplomatici a Parigi prevedono che proprio in Iraq possa innescarsi la prossima grande crisi internazionale dopo l’Afghanistan, nel temuto effetto domino provocato dal cambio di priorità della potenza Usa».
Senza giri di parole parla dell’Europa il vice presidente della commissione europea Josep Borrell, in un’intervista al Corriere di Federico Fubini.
«Un’accusa che nessuno può muovere a Josep Borrell è che sia un ipocrita. Il vicepresidente della Commissione e alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea non si nasconde mai. Dal disastro afghano cerca di trarre una lezione: è il momento di costituire una forza europea di pronto intervento, «perché gli americani non combatteranno più le guerre degli altri». Vicepresidente, siamo alla fine della guerra in Afghanistan e all’inizio di una guerra fra fondamentalisti? «Questa è in primo luogo una catastrofe per gli afghani, un fallimento per l’Occidente e un punto di svolta per le relazioni internazionali. Ma è la fine della guerra? È la fine della presenza militare occidentale in Afghanistan. Non sono sicuro che gli afghani stessi non inizino a combattersi fra di loro. Ma di sicuro per noi questa non è la fine della questione, perché dobbiamo continuare a sostenere la gente in Afghanistan». Gli europei hanno portato via da Kabul forse diecimila persone. Ma quanti ce lo hanno chiesto e non sono partiti? «Sinceramente una cifra concreta sul numero di persone che sarebbero state da evacuare non l’abbiamo. Non credo che qualcuno ce l’abbia. Quelli che lavoravano con la Ue sono 520 e li abbiamo portati tutti al centro di raccolta di Madrid. Ma quelli che lavoravano con la Ue e gli europei in passato o erano coinvolti, magari nella società civile, cercando di costruire un Afghanistan democratico? Fra loro, a migliaia non si è riusciti a evacuarli. Dunque, sì: l’evacuazione è stata un successo visto il gran numero di persone portate fuori in tempi molto stretti. Ma decine di migliaia sono rimasti indietro: è un problema». Gran parte delle critiche si sono concentrate sull’America e su Joe Biden. Ma noi europei ne usciamo bene? «Gli europei sono stati coinvolti dall’inizio nella guerra afghana, perché per la prima volta dopo l’11 settembre era stato invocato l’articolo 5 del Trattato Nato sulla difesa reciproca fra Paesi dell’Alleanza. Dall’inizio i membri europei della Nato hanno mandato le loro truppe – donne e uomini di grande valore – e abbiamo speso molto denaro. Detto ciò, come europei non abbiamo avuto un approccio chiaro e che fosse nostro. Il primo obiettivo era combattere Al Qaeda e lo abbiamo fatto. Poi c’era un secondo obiettivo più confuso: cercare di costruire uno stato moderno. E in questi vent’ anni qualcosa è stato fatto, non possiamo essere negativi su questo: fra l’altro, abbiamo permesso a tre milioni di bambine di andare a scuola. Ma la costruzione di uno Stato moderno non ha avuto tempo di mettere radici profonde. Dunque come europei abbiamo la nostra parte di responsabilità, non è stata solo una guerra americana». (…) Lei propone una forza militare europea. Ma non riusciamo neanche a fare una dichiarazione congiunta su Hong Kong e all’aeroporto di Kabul ogni Paese europeo lavora da solo. «L’Europa spesso reagisce solo di fronte alle emergenze. Da questa esperienza dobbiamo tirare degli insegnamenti. Ognuno dei Paesi Ue presenti in Afghanistan si è mobilitato attorno all’aeroporto di Kabul in queste settimane. Hanno cooperato fra loro e hanno condiviso le capacità di trasporto. Ma come europei non siamo stati in grado di mandare seimila soldati attorno all’aeroporto per proteggere la zona. Gli americani ci sono riusciti, noi no. Per questa ragione nella “bussola strategica” proponiamo la creazione di una “Initial Entry Force” europea che possa agire rapidamente nelle emergenze. La Ue dev’ essere in grado di intervenire per proteggere i propri interessi quando gli americani non vogliono essere coinvolti. La nostra “First Entry Force” dovrebbe essere composta di cinquemila soldati in grado di mobilitarsi a chiamata rapida». Come pensa di aggirare i veti nazionali? «Se non c’è unanimità, prima o poi un gruppo di Paesi deciderà di andare avanti da solo. I governi che lo vogliono non accetteranno di essere fermati». Lo possono fare? «Possiamo lavorare in molti modi diversi. Molto si è fatto tramite accordi specifici che all’inizio erano fuori dal Trattato, come nella crisi finanziaria». In Europa discutiamo le crisi geopolitiche solo quando temiamo che arrivino dei rifugiati. Ma questo non spinge Paesi limitrofi come Turchia o Bielorussia a cercare di ricattarci con i flussi di migranti? «È vero che l’Europa tende a concentrarsi sulle crisi geopolitiche solo quando ci preoccupiamo di questa questione. Ma le persone che arrivano dall’Afghanistan non possiamo definirle dei migranti. Molti sono richiedenti asilo. Sono fuggiti da Kabul perché non volevano essere uccisi. Ma è così: sempre di più i migranti o i rifugiati vengono usati come armi da alcuni dei Paesi vicini per metterci sotto pressione. Di recente degli iracheni sono volato fino a Minsk e da lì il regime bielorusso li ha portati al confine lituano. Questi tentativi di usare i migranti come armi vanno respinti, ma noi europei non possiamo guardare alla geopolitica solo attraverso la lente dei flussi migratori. Gli effetti sono molto più ampi. C’è un’insicurezza nell’opinione pubblica che alcuni soggetti cercano di sfruttare politicamente, ma dobbiamo assumere un approccio molto più generale». È vero che la Ue pagherà l’Uzbekistan, il Tajikistan, il Pakistan e persino l’Iran per tenere i rifugiati afghani che noi non vogliamo? «Quel che è vero è che sulle questioni relative all’Afghanistan dovremo aumentare la cooperazione con i Paesi limitrofi. Dobbiamo aiutarli di fronte alla prima ondata di rifugiati. Non è che gli afghani che fuggono arrivano per prima cosa a Roma, ma magari a Tashkent. I Paesi in prima linea vanno aiutati». Riceveranno assistenza finanziaria dall’Europa per ospitare gli afghani, così come la Turchia l’ha avuta per tenere i siriani? «La capacità di assorbimento dell’Europa ha dei limiti e senza una forte cooperazione non si può fare niente. I Paesi limitrofi saranno coinvolti più e prima dell’Europa. Dunque, sì: vuol dire anche dare a quel Paesi un sostegno finanziario come abbiamo fatto con la Turchia». Nel 2015 Jean-Claude Juncker diceva all’Ungheria che i muri alle frontiere non sono accettabili in Europa. Ora la Grecia e la Lituania li erigono con l’approvazione di Bruxelles. Cosa è cambiato? «Juncker parlava di confini fra Paesi Ue. Ma se si parla del confine esterno dell’Unione, ci sono degli Stati membri che hanno dovuto erigere delle barriere. Non va contro la legge europea. Le barriere sono lì per proteggere contro la violazione dei limiti territoriali di un Paesi. Qualunque Paese ha il dovere di proteggere il suo territorio. Dall’altra parte, queste misure devono essere proporzionali e non devono impedire a chi cerca asilo di presentare la propria richiesta, che va trattata in base al principio di non-respingimento».
Oggi Macron presenterà la sua proposta all’Onu. Ma ha ancora senso questa istituzione? Domenico Quirico per La Stampa.
«Quando le Nazioni Unite furono fondate molti già temevano che la Carta promettesse troppo e che i fondatori del parlamento dell’uomo fossero stati troppo ottimisti per questo mondo malvagio. Oggi è difficile perfino definire che cosa è l’Onu: quello delle risoluzioni e degli interventi di peace keeping? O l’organizzazione che difende i diritti umani ovunque e comunque? O ha il compito di rimettere in piedi gli stati falliti, difendere l’ambiente e favorire i rapporti culturali tra i popoli? Me se guardiamo l’Afghanistan vediamo il nulla. Semplicemente l’Onu sul piano politico non c’è. E quel che peggio sembra fuori posto. A parlarne si solleva il sorriso riservato agli ingenui. Sì, vi svolge compiti umanitari encomiabili, come peraltro molte altre organizzazioni non governative che dispongono di bilanci e mezzi assai inferiori. Ma è il grido dell’anima in un modo privo di anima. Forse mai in precedenza la marginalità dei missionari della pace è stata così irrimediabile, il silenzio, al di là delle rituali riunioni del Consiglio di sicurezza che servono a esser vili senza rimorso, così evidente. Il genere umano ha bisogno di una entità che superi gli schemi egoistici e pericolosi dello stato nazione, non possiamo disinteressarcene. Ma è possibile ancora soddisfare concretamente questo bisogno con questo strumento di burocrazia sclerotica, con i suoi schemi svuotati nel corso della Storia, con la imponente ragnatela di divieti? Siamo ben oltre il problema della riforma del Consiglio di sicurezza. Nel mondo delle guerre permanenti e che hanno abolito la pace, di cui Kabul è un esempio, del rinserrarsi della calotta glaciale totalitaria, del ritorno degli odi assoluti può esistere un meccanismo messo in piedi per una realtà storica diversa? Nell’ultima delle infinite guerre afgane iniziata dagli Stati Uniti nel 2001 e nei venti anni di controllo americano di quel Paese applicando in modo malaccorto e ipocrita i principi del dominio indiretto, le Nazioni unite sono state totalmente assenti. Gli Stati Uniti che pure promettevano e vi annunciavano l’avvento dell’evo dei diritti umani hanno consentito solo alle meritevoli Agenzie di aiutare popolazioni che di rado hanno avuto tregua. Una missione generosa che continuerà, nella probabile crisi umanitaria che lo sconvolgimento di questi mesi ha aggravato. Gli intrattabili talebani hanno interesse a ottenere soccorso per rendere la condizione dei propri sudditi meno precaria, il piatto vuoto provoca sempre, moti di rivolta. Ma gli scenari per decidere il futuro dell’Afghanistan sono riservati a summit dei Grandi allargati a Paesi vicini o che hanno influenza geopolitica sul Paese, a vertici regionali, a diplomazie parallele e opache tra i burattinai che hanno favorito il caos di questi anni e si propongono di controllare a proprio vantaggio il dopo. Come quella unilaterale tra americani e talebani a Doha che si è risolta in un disastro. La terza guerra mondiale ha come protagonista e nemico non uno Stato ma la internazionale islamista che rifiuta i concetti di diplomazia, mediazione, tregua, pace. Proprio gli elementi che hanno costituito lo scopo e la materia su cui è stato creato il parlamento dell’uomo e che gli hanno garantito un ruolo durante i decenni della Guerra fredda e perfino nell’epoca assai breve del monologo americano. Le Nazioni unite possono agire soltanto se i contendenti, anche soltanto strumentalmente, riconoscono la utilità e la possibilità della pace. Ma nel terzo millennio uno di loro ha come scopo il rovesciamento teologico del mondo, per cui il nemico e perfino il mediatore che pratica la sua stessa fede sono degli impuri, degli empi, da uccidere. Neppure Kissinger, il modello di negoziatore del secolo scorso che si muove nella Storia con disinvoltura e con una punta di mistificazione, avrebbe possibilità di successo con questo talento distruttore che prolunga la guerra oltre la vita, che rimanda all’odio di Creonte. Le guerre di oggi non sono più quelle che l’Onu aveva la possibilità di fermare o rendere meno brutali. Perché si dichiarano e si combattono con atti di terrorismo globale per cui basta il furore suicida di un singolo. E la vendetta, triste parola tornata di moda, è affidata a una tecnologia criminale, il drone, che consente rapidità e impunità. Insomma, siamo tutti fabbricanti di apocalissi sequenziali, di spirali di violenza a scatto automatico. Tra attacco e risposta, egualmente micidiali, non c’è più la necessità di riflettere sulla difficoltà tecnica, i costi umani, la distanza, la possibilità pericolosa di coinvolgere altri soggetti. Uno strumento omicida manovrato a sicura distanza garantisce la rivincita. La sua ottusa incapacità di distinguere bersagli e innocenti, proprio perché anonima, tecnologica, assorbe ogni rimorso e a sua volta alimenta la opportuna catena dell’odio. Oggi la guerra viaggia con i profughi, che le Nazioni Unite in fondo si limitano a contare. Arriva tra noi. Non nel senso che questi sopravvissuti sono quinte colonne del terrorismo. Ma perché ne portano con sé la realtà antropologica, i suoi lamenti e il suo silenzio. Ci vive accanto, come presenza, inquietudine, dubbio per cui non basta più neppure il rimedio dell’indifferenza».