Un valle diventata disabitata, dopo la pace imposta dalla conquista talebana. Il reportage di Lorenzo Cremonesi per i lettori del Corriere.
«Valle del Panshir. La guerra è finita. I talebani hanno vinto. Le forze della resistenza sono in rotta o nascoste senza speranza nelle valli più remote e tra gli anfratti d’alta quota su queste montagne aspre. La sconfitta del figlio del «Leone del Panshir» ha il volto melanconico e triste di bivacchi sgombrati in fretta e furia, qualche autoblindo bruciata, in realtà pochi segni di battaglia dura, ma invece di questa infinita serie di abitazioni vuote, villaggi abbandonati, animali dispersi nei campi deserti e frutti maturi non colti. Dei circa 120.000 abitanti non sono rimasti che qualche migliaio, forse meno del 20 per cento. Siamo arrivati ieri nel cuore di questa vallata posta a un centinaio di chilometri a nord di Kabul, che fu il regno per quasi tre decenni di Ahmad Shah Massoud, il mitico eroe della resistenza antisovietica e poi l’unico comandante che con i suoi guerriglieri tagiki fu in grado di non soccombere ai talebani tra il 1994 e il 2001. A ucciderlo furono due kamikaze vigliacchi di Al Qaeda travestiti da giornalisti, non a caso solo due giorni prima degli attentati dell’11 settembre di vent’ anni fa. Suo figlio, il 32enne Ahmad Massoud junior, non è riuscito a perpetuare il mito di invincibilità del padre. I loro ritratti pendono bucherellati di pallottole dai muri delle case. Se ne vedono i resti bruciacchiati, sgualciti, assieme alle bandiere flosce e sporche della loro milizia. «Il figlio non poteva fare di più. È restato con noi sino alla fine. Ha provato a organizzare la resistenza armata. Gliene rendiamo atto. Ma è troppo giovane, privo di esperienza bellica e i nemici sono troppo forti, troppo bene armati e col morale alle stelle dopo la presa di Kabul», dice il 75enne Golam Narih, che per un quarto di secolo ha lavorato per le Nazioni Unite qui nel villaggione di Bazarak, che è il capoluogo amministrativo della vallata. I talebani sono venuti da lui l’altro giorno per chiedergli di convincere gli ultimi nascosti qui attorno a deporre le armi. Dal suo balcone di casa mostra le tre vallate dove potrebbero trovarsi: Manjuk, Tolha e Parandeh. «Sono zone ripide, alte oltre 4.000 metri. Ad un giovane ben allenato occorrono almeno dieci ore di marcia veloce per raggiungerle. Saranno rimasti in alcune decine. Da qualche giorno comunque non combattono più», spiega. Di Massoud non sa. Ma molti sono convinti che abbia abbandonato la valle. Secondo i talebani lui e l’ex vicepremier Amrullah Saleh, cui i talebani tre giorni fa hanno assassinato il fratello a poche centinaia di metri dall’abitazione di Narih, sarebbero già fuggiti in Tagikistan. Proviamo a raggiungere la tomba-mausoleo di Massoud, che domina a metà della vallata. Era diventata meta popolare di pellegrinaggio per i tagiki e comunque per tutti quegli afghani che temono come il fumo negli occhi l’oppressiva teocrazia dei mullah talebani. Un luogo alpino, invaso dalla luce pura delle terre alte e sovrastato da ampi pendii mozzafiato. Il fondovalle è ricco di ristorantini affacciati al fiume Panshir, le cui acque cristalline sono ricche di trote. I talebani di guardia però bloccano l’accesso. «La tomba è stata danneggiata dai combattimenti. Noi rispettiamo i morti. Sarà visitabile solo dopo il restauro», spiegano, non aggressivi, però inflessibili. Nel vicino palazzo del governatore bivaccano le loro truppe speciali. Sorpresa: non sono pashtun, bensì tagiki, talebani locali. «I comandi di Kabul ci hanno inviati qui perché conosciamo bene la regione e i suoi sentieri. Siamo penetrati con facilità e, in ogni caso, gli uomini di Massoud erano pochi, non più di 500, e disorganizzati. Le nostre forze erano almeno dieci volte più numerose e molto meglio armate. Grazie alla nostra superiorità i combattimenti sono durati solo quattro giorni. Già il 6 settembre era finito tutto», racconta il 31enne Nasrullah Malekzada. Un suo compagno, il 23enne Karisai Fasihuddin, tiene a sottolineare che i pachistani non hanno avuto alcun ruolo. «Non abbiamo certo avuto bisogno di loro per vincere. Abbiamo fatto tutto da soli», spiega. Chiediamo delle vittime, quanti morti? « Le battaglie decisive sono state alla gola di entrata da sud e al passo Kawak. I nemici morti sono almeno un centinaio, con una quarantina di feriti. I nostri una ventina e dieci feriti», risponde Nasrullah. Però in valle parlano di centinaia di talebani ancora insepolti nelle aree impervie. Per cercare verifiche andiamo all’ospedale di Emergency, posto al villaggio di Anaba, una mezz’oretta d’auto dal governatorato. Alla porta i talebani che vogliono visitare i loro feriti ricoverati vengono disarmati. «Sono le nostre regole da sempre. E, tranne qualche momento di tensione una settimana fa, anche i talebani le rispettano», spiega la coordinatrice italiana, Gina Portella. Anche lei tende a confermare che i numeri delle vittime delle battaglie sono limitati. «Abbiamo ricevuto una quarantina di feriti, sia talebani che della resistenza, e in tutto una decina di morti. Gli ultimi due ricoveri per ferite d’arma da fuoco di striscio sono stati fatti venerdì sera», dice. Ma il vero dramma è quello dei profughi. Partiti, scappati all’arrivo dei talebani. Quasi tutti hanno trovato riparo tra amici e parenti nella zona di Kabul. Nel villaggio di Mala, su cento famiglie, ne sono rimaste solo quattro. «Attendiamo il loro ritorno», dice Samir, un quindicenne incontrato tra i cortili vuoti. «Non so più con chi giocare».